P’aolo Iašvili, “Le piramidi” (1916)

P’aolo Iašvili
Le piramidi (1916)

Qui dove tacciono le piramidi
Giacerò sulla sabbia assolata nell’ora delle nozze del sole…
Qui dove tacciono le piramidi
Mi pungerà il desiderio di te
Dei tuoi occhi, delle tue braccia, della tua pelle di bronzo.
Ti porterà in volo un corsiero arabo
Dagli occhi socchiusi.
Mi getterò tra le braccia amate come su un soffice letto
E tu mi bacerai come regina, come schiava e sposa,
Sarà dolce il nostro gioco sulla sabbia,
Nell’assolarsi dileguerà il pensiero…
Piangerà tra le piramidi il destriero paziente.
Andrà all’azzurra Sfinge, la fisserà, sarà pensoso.
Noi porteremo al fiume i corpi dorati di sabbia
Nei verdi flutti placheremo gli ardori incandescenti
Veglierà il tuo destriero contemplando la Sfinge,
E partirà nel deserto alla ricerca dell’amata.

Traduzione dal georgiano di Francesco Peri

 

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P’aolo Iašvili (1894-1937)

Laša Bughadze, «La madre di Putin» (2014)

Laša Bughadze (Tbilisi 1977) è uno dei più quotati autori georgiani della giovane generazione. La sua opera di drammaturgo, ironica e irriverente, ha trovato apprezzamento anche all’estero, specialmente in Francia e in Inghilterra. Nel 2013 il Royal Court Theatre di Londra ha allestito la sua pièce P’rezident’ma gvian movida, “Il presidente ha fatto tardi”. Del suo romanzo più noto, Lit’erat’uruli ekspresi, “Letteratura Express” (2009), parodia dei seminari e delle residenze per scrittori, esistono una traduzione inglese e una tedesca, recentissima. Il breve monologo La madre di Putin è andato in scena a Mosca e Parigi. La presente traduzione è stata pubblicata per la prima volta il 19 luglio 2015 sul blog “Le Parole e le Cose”, che ringrazio per l’ospitalità (Nota del Traduttore).

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Laša Bughadze

La madre di Putin

Monologo

Quasi una prefazione

Moltissimi, in Georgia, sanno che nel cuore del paese vive un’anziana signora di nome Vera Putina. Siamo in provincia di K’asp’i, a mezza via tra Gori, la città che ha dato i natali a Stalin, e il punto dove la guerra russo-georgiana del 2008 ha fatto spuntare il cosiddetto “stato” dell’Ossezia del Sud, non riconosciuto da alcun paese al mondo, o per l’esattezza riconosciuto dalla sola Russia, ma in compenso occupato da soldati veri. Da lunghi anni la signora Putina va ripetendo la stessa storia: sostiene di essere la madre carnale del presidente russo Vladimir Putin, e narra episodi curiosi ma paradossalmente convincenti sull’infanzia dell’uomo che regge le sorti della Russia.

            Se capitate dalle parti di K’asp’i e provate a domandare ai passanti dove abita la madre di Putin, quelli non batteranno ciglio, ma vi indicheranno con la mano la direzione della sua casa: “La madre di Putin? Vive qua sopra, nel villaggio di Met’ekhi”.

            Alcuni anni fa ci hanno perfino girato un documentario, eppure nessuno è ancora riuscito a confermare o smentire le sue asserzioni. Più di recente mi è capitato di leggere su un quotidiano nazionale che alcuni esperti georgiani, coadiuvati dagli americani, avrebbero confrontato il dna della signora Putina con quello prelevato da un capello di Vladimir Putin (a quanto pare gli americani erano riusciti a procurarsene un pezzetto). Quell’esperimento avrebbe dimostrato al di là di ogni dubbio che Putin è figlio della signora.

            Non saprei dire quanto abbia di credibile quella notizia, ma sarebbe interessante già solo cercare di appurare come e in quali circostanze sia stato possibile sgraffignare un capello a Putin (per giunta senza che se ne accorgesse). Era caduto per cause naturali? È concepibile che glielo avesse spiccato un collega, cioè un altro presidente?

            Lasciamo la questione in sospeso: per verificare occorrerebbe un’indagine a parte, mentre il mio monologo non parla di una specifica madre in carne e ossa, ma piuttosto di un’anziana pensionata che da un lato ha tutte le ragioni per lamentare lo stato di indigenza e insicurezza nel quale si ritrova, però dall’altro (e proprio per le ragioni dette sopra) ripone tutte le sue speranze residue nella persona di Putin, l’uomo che vuole ritornare al passato, restaurare il sistema sovietico, debellare una volta per tutte la causa ultima della sua miseria e delle sue paure: l’antico, potente e invisibile nemico che si annida in Occidente.

            Nei giorni della crisi in Ucraina il presidente russo in persona ha dichiarato che i suoi soldati (cito alla lettera) “coprono le spalle delle donne e dei bambini”, e in effetti molti si sono goduti la scena quando davvero si sono visti i mezzi blindati e le truppe di Putin chiudere la marcia di un plotone di vecchiette ingiustamente private dei loro diritti ma temprate dalla rabbia e assetate di vendetta.

            Lo zoccolo duro del consenso di cui oggi gode Putin è costituito da pensionati indifesi, abbandonati e inferociti.

            La maggioranza silenziosa che da sempre spalleggia i despoti.

 L.B.

Non mi interessa far sapere al mondo intero dove sto di casa. Dirò soltanto che la nostra zona è rinomata per i meli e per il fatto che a mezz’ora da qui ha visto la luce il condottiero dell’Unione Sovietica, Iosif Stalin. Altri tempi, quelli. Stalin non ho fatto in tempo a conoscerlo, e neppure la sua mamma. Sono arrivata troppo tardi.

Io non sono originaria di qui, sono venuta al mondo da un’altra parte, in un paese diverso, figlia di un popolo diverso, eppure il destino ha voluto altrimenti, così da decenni vivo quaggiù e parlo la lingua del posto, che per me è una lingua straniera, ma che ormai conosco meglio della mia. Russo o georgiano, capirete che differenza fa per una vacca o per i polli! Con loro ci parlo in una lingua franca che capiscono tutti: i cristiani e le bestie del creato.

Se con la mente ripasso la mia biografia, posso dire in tutta coscienza di non avere mai smarrito un animale affidato alle mie cure, cornuto o pennuto che fosse. È capitato, certo, che gente venuta da un altro villaggio abbia portato via una vacca, ma il mio bestiame lo hanno sempre lasciato stare.

Da queste parti non esiste un animale vivo e sano capace di darmela a bere. La gente del villaggio lo sa: quando un bue o una capra si sono allontanati lungo la superstrada e non si trovano più è me che bisogna far chiamare.

Tanto per dire, sono stata io a riportare al villaggio quel bufalo sparito da due anni, e sono stata ancora io a ritrovare il capretto che era saltato oltre un burrone. I cuccioli di lupo li ho scoperti io; io ho scovato le orme della gazzella, quelle che secondo certi mascalzoni che hanno riso per giorni sarebbero state impronte di orso. Come se uno non sapesse che differenza corre tra un orso e una gazzella!

Perché tutti questi preamboli? Per farti capire che io, nella vita, ho sempre ritrovato tutto e tutti… tranne te.

Neppure ricordo quante volte ho tentato di rintracciarti, quanti posti ho girato, quante persone ho scongiurato di aiutarmi, eppure i miei messaggi non ti arrivavano mai.

Poi, sarà stato una quindicina di anni fa, ti ho visto per la prima volta in televisione che camminavi da un capo all’altro di una lunga lunga sala[1] e ti ho immediatamente riconosciuto… Ecco il mio bambino, ho detto, quello lì è il ragazzo che ho perduto tanti anni fa! Il viso, il modo di fare, quella maniera di venire avanti piegato leggermente a destra… e poi la statura, capirai, perché già allora si vedeva che non saresti più cresciuto in altezza. Mi sei apparso anche in sogno e mi dicevi: “Mamma, sono stato promosso, vengo a casa per le vacanze”.

Cuore di madre non si inganna!

Non sono mai stata molto brava a strologare i sogni, eppure il 16 marzo del 1987 ho avuto come una visione di un certo vitellino smarrito dalle parti di Kareli, e il giorno dopo i miei compaesani lo hanno ritrovato nel punto esatto in cui mi era apparso.

Anche nel caso tuo è andata più o meno così!

Ti ho visto tante volte parlare in pubblico di fronte a folle immense: mi assopivo, mi risvegliavo e tu eri ancora lì sul teleschermo che arringavi la popolazione. Ma tu pensa, mi dicevo, anche in questo ha preso da me: non si ferma mai, ce la mette sempre tutta, quando munge una bestia la spreme fino all’ultima goccia. Qui al villaggio mi chiamano la Sgonfiamucche, e anche tu sei fatto così: ci dai dentro finché non hai svuotato ben bene le mammelle. Si vede da chi hai preso, va là.

Le madri sono fatte così: per quante barriere si mettano di mezzo, per quanti metri di filo spinato tocchi loro valicare, trovano sempre uno spiraglio da cui sgusciare per ricongiungersi a un figlio, per fargli sentire la loro voce, anche a costo della vita.

Al momento la situazione è questa: i tuoi soldati (ma tuoi o miei non fa differenza, no?) hanno posato una recinzione di filo spinato ad alcuni chilometri dal nostro villaggio. Anche in questo preciso istante, mentre cerco di parlare con il mio ragazzone, i militari ci danno dentro con il filo spinato e piantano cartelli che dicono: “Alt! Frontiera di Stato”[2].

In certi casi, dopo che sono passati i militari, può capitare che una casa si venga a trovare di qua dal confine, mentre la ritirata, voglio dire il gabinetto, rimane dall’altra parte. La vacca sta di qua, la stalla di là. Il bestiame da una parte, il pascolo dall’altra.

Un signore si è ritrovato di qua dal confine con la sua vecchia moglie, solo che le tombe dei suoi genitori erano oltre il filo spinato. Allora niente, domanda ai soldati come faranno a seppellirlo quando muore, perché mica si può far passare la bara dai buchi della recinzione, e quelli gli rispondono: bisognerà presentarsi a Mosca per farsi rilasciare il permesso di inumare. Solo che il cimitero – mi segui? – sta sulla collina lì dietro, praticamente a un tiro di schioppo, mentre per andare e venire da Mosca, come minimo, uno ci impiega una settimana. Nel giro di cinque giorni il cadavere si guasta e i parenti in lutto non ce la fanno più. Comunque adesso non metterti in testa che io sia contro le leggi: per conto mio, se valgono qualcosa, dei parenti in lutto il morto se lo possono tenere in casa anche per due o tre settimane, altro che una sola. Per questo io non do retta alle mormorazioni della gente. Da quando in qua una trasferta a Mosca è diventata una cosa di cui lagnarsi, una cosa da schifare? Quando ero giovane io la gente cercava continuamente scuse per andarsene a Mosca, e trovamelo tu un pretesto migliore di un funerale! È vero che ai georgiani non rilasciano più visti per la Russia, ma chi si sognerebbe di ostacolare la sepoltura di un morto? Prendi la foto del defunto, la incolli sul tuo bel passaporto russo[3] e a Mosca si aprono tutte le porte. Non varrà mica la pena di farsi la guerra per uno stupido certificato!

Qui da noi c’è l’abitudine di uscire nel bosco per raccogliere i capperi selvatici[4], e non passa giorno senza che i militari arrestino qualcuno. Forse che non hanno i loro buoni motivi? Ce li hanno sì, dei buoni motivi, mica sono briganti di strada: arrestano la gente che ha violato il confine. Può benissimo darsi che spunti una frontiera dove il giorno prima non c’era nulla, eppure la gente continua a prendere i sentieri di sempre, come se non sapessero, teste di coccio, che di lì a un’ora il bosco dei capperi selvatici potrebbe diventare parte di un altro stato (se pure non è già successo la sera prima). Che ci vuole per capirlo? Se vedi un soldato che ti viene incontro, o magari addirittura una jeep, vorrà dire che hai passato il confine, no? Con un minimo di comprendonio ci si arriva. Una volta sono uscita nel succitato bosco a raccogliere capperi selvatici. L’ho fatto apposta, fidandomi del mio istinto, tanto è vero che non ho sconfinato neppure una volta. Ho raccolto tanti di quei capperi selvatici che non sapevo più come portarli a casa. Al mio ritorno quegli altri dicevano: è che lo sanno, chi è tuo figlio, per quello non ti hanno arrestata. Che cosa c’entra adesso mio figlio? Non ho violato il confine, dico io: per quello non mi hanno arrestata. E tu che ne sapevi, fanno, di dove corre la frontiera? Magari hai sconfinato e neppure te ne sei accorta. Non lo sapevo no dove passa la frontiera, ribatto io, però se lo avessi saputo ci avrei fatto attenzione, e siccome non mi hanno arrestata, vorrà ben dire che non ho sconfinato. Però intanto, in cuor mio, io pensavo: stai a vedere che lo sapevano davvero, chi sono io, che glielo avevi detto tu, e proprio per quello mi hanno lasciata stare? Io lo so che tu sai dove vivo e come campo. Ovunque io vada, sento con il cuore e con l’anima che il tuo sguardo mi segue, che il tuo orecchio mi ascolta, che tu ti prendi cura di me.

C’è un’altra cosa che devi sapere: spesso le persone uscite nel bosco a fare scorta di capperi selvatici o rami secchi vengono rapite per storie di soldi. I militari arrestano la gente con il pretesto della frontiera e poi chiedono il riscatto alla famiglia. La famiglia, però, che cosa possiede? Dei capperi selvatici, possiede. E per giunta sono ancora sulla pianta. Adesso però non andare a pensare che io ce l’abbia con i soldati. Hanno diritto anche loro a procurarsi un tozzo di pane. Qui da noi i capperi selvatici valgono per moneta sonante e loro non dovrebbero farsi pagare in rubli? Mi dispiace soltanto che la gente dia tutta la colpa a te, sono convinti che tu voglia i loro rami secchi e i loro permessi di inumare rilasciati a Mosca. Che puoi saperne tu dei maneggi che si fanno qui? Tu lotti dalla parte dei diseredati, che te ne frega dei loro morti fatti passare per i buchi della recinzione? Tu combatti per la giustizia e l’amore, credi che io non lo sappia? Eppure come faccio, da sola, a spandere le tue lodi per tutti questi ettari? Che cosa può una madre con le sue sole forze? Magari mi avessi dato una nuora: quella mi darebbe manforte, metterebbe becco anche lei per difenderti. Due donne invece di una contro un mondo come il nostro non sono mica la stessa cosa. Eppure una nuora non me l’hai data, e non so neppure con chi sei sposato al momento. Oppure sei rimasto scapolo? Hai divorziato? Sei vedovo? Hai due mogli? Una da tenere in casa e una per fare scena? La gente racconta certe cose[5]… Roba da non credere alle proprie orecchie. Ti pare possibile che una madre non sappia se suo figlio, carne della sua carne, è sposato oppure scapolo? Se una moglie non ce l’hai, chi hai? Figli ne hai? Quanti ne hai? Ti sto chiedendo notizie dei miei nipotini, bada, mica di sconosciuti. Che cos’hai da nascondere? Si è mai visto un figlio che tiene nascosta la moglie a sua madre…? Dico quella che sta in casa ma anche quell’altra, sai, quella per fare scena. Quanti figli hai? Ce l’hanno un nome? Tuo padre si chiamava Platon: hai chiamato Platon uno dei tuoi figli? Te lo ricordi tuo padre? Non me lo ricordo più nemmeno io, come potresti ricordartene tu! Faceva l’agronomo e mi ha piantato in asso al quarto mese. Poi ho conosciuto una persona che lavorava nella nostra città e ci siamo sposati[6]. È per seguire lui che siamo venuti a stare quaggiù: tu avevi sette anni, io… chi si ricorda più, non son cose da parlarne. Avevi dieci anni quando ti ho rimandato in Russia. Non ti ci sei mai trovato con quell’uomo. Quando ci bombardi, la gente del posto dà sempre la colpa al tuo patrigno, che in fin dei conti non era una cattiva persona… O comunque non ti ha mai fatto nulla di così grave da giustificare delle bombe in testa[7]. A volte le sue maniere lasciavano a desiderare e non sempre andavamo d’amore e d’accordo. Capitava che alzasse le mani. Mi ha picchiata sotto i tuoi occhi come ha picchiato te alla mia presenza, e anche a mia insaputa – però non ha mai passato il segno. Per te si preannunciavano tempi difficili: la paura di venire emarginato da persone diverse nel fisico e nell’animo, la gente che ti segnava a dito, le zuffe con i ragazzini di qui. Allora mi sono detta che forse per te era meglio mandarti a vivere da una mia cugina: almeno era sangue del mio sangue. È stato così che ti ho perduto, è stato lì che ho fatto uno sbaglio! Quei due non avevano figli propri e si sono detti “Ahi ahi, come facciamo se poi lo rivuole indietro?”, così sono spariti nel nulla, hanno rispedito le mie lettere al mittente e ci hanno separati per sempre. È la vita: cugina o cugino, una volta che il peccato ha messo radici nel cuore, una persona è capace di tutto. Peggio ancora se non ha figli. Poi è successo che l’urss ha mandato un uomo in orbita, il paese è andato sottosopra, è arrivata la carestia: dove potevo andare a cercarti? Come potevo sperare di trovarti? Dicevano che i tuoi genitori avevano fatto una brutta fine e che ti avevano messo in orfanotrofio. Quando l’ho saputo sono morta di nuovo. Davvero è successo così? Ma allora perché non sei tornato a casa? Perché non hai attraversato il bosco dei capperi selvatici per venire a gettarti nel grembiule di tua madre? Possibile che avessi paura di un mezzo paralitico? Oppure la colpa è mia? Era di me che avevi paura?

Quando per ordine tuo hanno bombardato la zona, alcuni anni fa, sul mio villaggio non è caduta neppure una bomba. Soltanto noi hai risparmiato. I tuoi carri armati hanno investito una vacca sulla superstrada, ma a parte questo non è successo nulla. La gente del posto è convinta che hai detto tu di non bombardarci, perché qui ci vivo io. Davvero è per questo che ci hai risparmiati, gioia? Sapevi che lì sotto c’era la tua mamma? Se è vero, sappi che ti vorrò dieci volte più bene di prima. A me non fai paura! Dovrei essere matta per avere paura di mio figlio! Come se non sapessi che cuore grande hai. Se tua moglie avesse un briciolo di sale in zucca (dico la seconda, quella per fare scena) ci penserebbe due volte prima di piantarti in asso. Brava la prima, quella per casa, se davvero sta in casa e non esce. Chi ha la fortuna di amarti è felice anche tra quattro pareti. Per questo io dicevo alla gente di qui: se non volete che vi cada una bomba in testa accendete un cero alla Vergine, però in cuor mio sapevo che tu non avresti mai fatto sganciare neppure una bomba sul villaggio dove un tempo eri venuto a stare con la tua mamma.

Eppure ci tenevo lo stesso a che accendessero un cero. Non tanto per una questione di modestia, anche se forse un po’ c’entrava anche quella, ma soprattutto perché è gente che ha dimenticato Dio. A quanto vedo, tu oggi sei l’unico che se ne ricorda! Sei tu che proteggi la vera fede dalla corruttela e dall’estinzione, e proprio per questo gli infedeli ti danno addosso. Che diamine te ne faresti, altrimenti, di queste due spanne di terra? A che pro tutto questo dispiegamento di forze? Per il disgraziato bosco dei capperi selvatici di cui si ragionava poco fa? È che tu hai il cuore puro, neppure un metro di terra sei disposto a cedere alle forze dell’irreligione. QSpesso, quando parli alla popolazione, vorrei andare anch’io in televisione e proclamare di fronte all’intero paese che non è questione di uno o due ettari: questa è una lotta contro la dannazione delle nostre anime. Quanto può contare la morte di un uomo o due, o anche quella di un gruppo di persone, quando milioni di anime vanno in rovina? Ti piacerebbe sentirmi parlare così? Riconosceresti tua madre? Eppure, io ti dico, non c’è verso di fare intendere ragione alle persone comuni. Siamo creature deboli, noialtri esseri umani, non capiamo i nostri veri interessi. Quando una persona non è abbastanza sveglia è dura convincerla che le conviene morire per la vera fede, piuttosto che vedere i nemici del genere umano impadronirsi della sua terra! Per me la faccenda è questa. Magari lo capisse anche il resto del mondo. Dopo la guerra, da queste parti, ci sono stati alcuni, per esempio il tuo fratellastro e sua moglie (è un grosso dispiacere per me che tu non li abbia mai incontrati di persona), che mi dicevano in faccia cose come: ma se, poniamo, avessi saputo fin dall’inizio che sarebbe venuto su così e che ci avrebbe bombardato, lo avresti messo al mondo lo stesso? Non avresti disturbato la gravidanza? E se di abortire non ti fosse riuscito, non lo avresti strangolato in fasce? Che bei discorsetti! Tanto per cominciare, come fa una madre a sapere in anticipo che uomo diventerà suo figlio? E poi, anche se fosse, dove prenderebbe la forza per sopprimerlo!? Solo una pazza scatenata potrebbe disfare il figlio che hai fatto. Forse che c’è da aver paura dei propri figli? Eppure c’era chi andava dicendo queste cose, avevano preso paura e venivano da me con idee che non stavano né in cielo né in terra: sì, mi fanno, ma poniamo che una chiromante o una monaca in odore di santità ti avesse predetto che quel tuo figlio avrebbe spedito all’altro mondo intere legioni di sconsiderati peccatori, pur sempre poveri mortali, tu che cosa avresti fatto? Non sarebbe stato meglio ammazzarlo da piccolo? Non lo avresti strangolato con le tue mani? Capito che roba? Alcuni si erano convinti che tu fossi il diavolo in persona. Eppure non sono mai riuscita a volergliene, a quelle persone: non lo capiscono proprio che tu quella guerra l’hai iniziata per salvarli[8]. Io l’ho sempre detto senza peli sulla lingua e lo ripeto anche ora senza tanti patemi: altro che diavolo, tu per me sei come Dio in terra. Ma non perché sei carne della mia carne, e per di più un uomo tanto celebre, autorevole, uno a cui non sfugge nulla e che anzi vede nel futuro. Quelli come me, i lavoratori, guardano a te come a un Dio perché tu non permetti a nessuno di metterci i piedi in testa, perché la fai pagare cara a quelli che ci hanno ridotti in questo stato. Siamo gente che ha lavorato per tutta la vita, che ha passato anni in piedi, senza riposare neppure la notte, e adesso che tiriamo gli ultimi è già tanto se prendiamo quattro soldi di pensione! Se poi si fossero degnati di pagarcele, quelle pensioni: abbiamo l’anima scollata dal corpo per la fame. Altro che medicine, non ce li avevo i soldi per le medicine, neppure un dente mi è rimasto in bocca. Toh, guarda!

Tu devi fare vendetta per tutti gli oppressi, tutti i miserabili, tutti gli ammalati. Mica soltanto per i pensionati, sai: anche per quelli che hanno passato ore in coda… noi che abbiamo fatto la fila giorno e notte per un tozzo di pane nero. Per tutti questi poveracci tu sei come Dio, sei il santo patrono. Quelli che per anni hanno messo da parte i loro soldi nelle casse di risparmio finché un bel giorno i postini, i doganieri, i banchieri, i diavoli a quattro, la progenie di Belzebù se li sono pappati, quei serpentacci malefici[9]! Devi fare vendetta per tutti quelli che quattro o cinque volte hanno preso la medaglia di eroe del lavoro e adesso pare che si faccia loro un favore a lasciarli viaggiare sui mezzi pubblici a tariffa scontata. Che poi a me, dei mezzi pubblici, capirai quanto me ne importa! Mica ci vado in tram, a raccogliere i capperi nel bosco. Che poi comunque, anche se sali a bordo, nessuno ti lascia il posto. Ti guardano tutti schifiltosi, come per dire: non sei ancora sottoterra, tu? Castiga e annienta questi cafoni incapaci di sollevare il deretano, fai piovere sangue sui figli e le mogli di quelli che con i soldi dei miei titoli di Stato ci si sono comprati beni immobili e mobili, quelli che hanno rimpinzato il parentado come bestie da concorso in una regione che si è ridotta a un nido di peccatori, e intanto io qui, senza denti, a ottant’anni suonati. Neppure uno me ne resta in bocca, guarda!

Ti sembra possibile che tua madre sia qui senza denti?

Manda la grandine sulla casa di quella carogna di un governatore che ha mandato i suoi scagnozzi a sloggiarci dal mercato alle porte della città, facendoci andare a male la carne e il formaggio negli scantinati, mele, pere, tutta roba invenduta[10]. Rovesciagli in testa un fulmine, con quella sua faccia di porco all’ingrasso, fai conto di sganciare una bomba. Anzi, meglio ancora: dicono che a quel trogolone piaccia bere, e allora ordina a qualcuno dei tuoi di mettergli nel vino dell’esplosivo invisibile per far saltare in mille pezzi le sue trippe immonde, e fai lo stesso con tutte le canaglie che ti mettono i bastoni tra le ruote, in patria e fuori. Ce l’avrai pure un esplosivo così, o un qualche acido, che so, qualcosa che si possa mescolare a un liquido – acqua, vino e tè. Se il tè lo beva non saprei dire, ma quello lì devi scannarlo perché serva di lezione agli altri, per farne un esempio. Fallo saltare per aria, gioiello bello della tua mamma, fai esplodere l’uomo che ci ha umiliati e ha infangato la nostra dignità. Aiutaci a raddrizzare la schiena, a non stare più in ginocchio, coprici le spalle e facci da retroguardia. Mandaci un segno, mostraci come si annientano i peccatori, magari durante una delle tue uscite in pubblico, affinché gli occhi vedano e il cuore creda; dai ordine di lasciarci entrare nel mercato, perché la gente compri i nostri capperi selvatici, il nostro formaggio, le nostre mele e le nostre pere… Ho riportato a casa decine e decine di vacche smarrite: ordina che mi rimettano in bocca i denti, che mi restituiscano la decima parte di quello che negli anni ho messo via per te e per i tuoi sciagurati fratellastri in quella maledetta cassa di risparmio: guarda qui, ecco il mio libretto di banca, c’è tutto scritto per filo e per segno. Castiga tutti quelli che vanno dicendo che sei l’uomo più ricco del pianeta, perché io lo so che sei ricco, ma ricco di saggezza e chiaroveggenza, non di beni terreni. Eppure questi vogliono calunniare te e torturare me: “Hai visto in che uomo riponi le tue speranze?”, “Hai visto che bel tomo hai messo al mondo?” L’uomo migliore di tutti, ecco chi ho generato, peccato che non mi riconosca. Che cosa c’è da avere paura? Giorno e notte mi rivolgo a te nelle mie preghiere, ripeto il tuo nome. Mi basterebbe che una volta sola mi permettessi di baciarti! Dov’è la strada che porta al tuo ufficio? Saranno sessant’anni, saranno, che non metto piede oltre il bosco dei capperi selvatici. Mandami uno dei tuoi angeli, di’ che mi prenda per mano e mi trasporti in volo oltre il Caucaso, anche senza i documenti in regola. Ce l’avrai, no, un aereo attrezzato per queste cose? Una donna di quarantacinque chili, capirai che ingombro… Si dice in giro che chiunque faccia richiesta riceve un passaporto dei tuoi, e che ovunque costui si trovi, ovunque abiti, sui monti o in fondo a una vallata, sarà tuo per sempre, nei secoli dei secoli, e se qualcuno cercherà di umiliarlo o manderà i suoi scagnozzi a rovesciare per terra i suoi prodotti al mercato, il potere benedetto del passaporto lo incenerirà. Quel passaporto è l’apriti sesamo del tuo cuore, e chi lo possiede è in comunione con te. Fai piovere sulle nostre teste queste salvifiche scartoffie, fai librare in cielo i tuoi ragazzi, fai che chiamino i nostri nomi dall’alto, uno per uno[11]. Ci penserò io a presentarti tutti quanti, ti suggerirò io i loro nomi, ho tutto annotato per benino, siamo tutti cosa tua. La prossima volta che parlerai in pubblico io non ci sarò già più, non sopravvivrò all’attesa, eppure non voglio morire prima di averti guardato negli occhi almeno una volta. Dove ce l’ha la testa tua moglie, l’una o l’altra, quella per fare scena o quella che sta in casa: non lo vede come sei palliduccio? Come posso io da sola sconfiggere la schiera di quelli che ti vogliono male? Mi fa orrore vederti così stanco. Dormi a sufficienza la notte? Hai nemici da tutte le parti, devi vegliare con cento occhi e cento orecchi. Chi può sapere da dove partirà il colpo, dove ti balzeranno addosso? E se ti sparassero? Se cercassero di farti saltare per aria? Se ti mettessero una bomba invisibile in un bicchiere d’acqua? Devi smetterla di bere acqua! Non potresti mettermi in contatto con i tuoi segretari? Al tuo fianco ci devo stare io, altrimenti non avrai nessuno che ti farà scudo con il proprio corpo. Nessuno prenderà al posto tuo la pallottola destinata a te. Dovesse capitare una disgrazia, avresti bisogno del mio sangue, che ti regalerà ancora cent’anni di vita. Quel sangue lo devo versare in tuo nome e non lo rimpiangerei, perché il sangue è l’ultima cosa sana che mi resta. Manda quaggiù uno dei tuoi generali, digli di cercarmi e di prendere il mio sangue. Lo terrai da parte per quando ti occorre. Comanda e io obbedirò!

Non voglio morire a casaccio!

Non voglio restare uccisa da una bomba sganciata a vanvera!

Quella bomba dovrà provenire da te, destinata a me personalmente! E per uno scopo salutifero, obbedendo a una necessità.

Non è giusto che io abbia paura di morire a casaccio.

Almeno in questo voglio esserti utile. Non castigarmi.

Sipario

Maggio 2014

Ttraduzione dal georgiano di Francesco Peri

© Francesco Peri 2015

[1] Allusione alla cerimonia di insediamento del 7 maggio 2000, con la quale si apre il primo mandato presidenziale di Putin (già presidente ad interim dal 1999). La “lunga sala” è probabilmente il salone di Sant’Alessandro nel Gran Palazzo del Cremlino, che secondo il protocollo il presidente eletto percorre a piedi  [Tutte le note sono del traduttore].

[2] Si tratta del confine dell’Ossezia del Sud, regione separatista oggi de facto indipendente.

[3] Allusione alla strategia della “passaportizzazione” e quindi alla campagna di sistematica russificazione amministrativa promossa dal Cremlino nelle regioni separatiste dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud. Dal 2006 chiunque ne facesse richiesta poteva ottenere un passaporto russo, e per ciò stesso il diritto di venire protetto militarmente da Mosca come “cittadino” della Federazione – pretesto ampiamente sfruttato come casus belli nell’agosto del 2008. Nelle zone cuscinetto istituite dalle forze di interposizione russe dopo il cessate il fuoco, l’emissione sistematica di passaporti è stata estesa con mezzi coercitivi (o comunque vessatori) anche alla popolazione georgiana.

[4] Staphylea colchica, in georgiano jonjoli: arbusto indigeno il cui prodotto, vagamente simile al cappero, trova largo impiego nella cucina regionale.

[5] Allusione alla misteriosa vita coniugale di Putin, oggetto di varie speculazioni. Nel 2014 Putin ha divorziato dalla prima moglie Ljudmila, sposata nel 1984 e sempre vissuta nell’ombra (quasi nulla si sa, per esempio, delle due figlie della coppia). La biografia lacunosa di Putin e la sua relazione adulterina con la ginnasta Alina Kabaeva hanno dato luogo a numerosi pettegolezzi su “mogli segrete” ed ex consorti ritiratesi in convento secondo il costume zarista.

[6] Secondo la ricostruzione di Vera Putina, il padre carnale di Vladimir Putin sarebbe il cittadino russo Platon Privalov, mentre il padre adottivo cui si accenna di seguito è il militare georgiano Giorgi Osepašvili.

[7] Allusione al conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008.

[8] Nel prosieguo del monologo la figura di Putin si carica via via di connotazioni messianiche, ma sotto lo scoperto riferimento alla persona di un altro Figlio illustre, che vuole ironizzare sulla recente svolta “ortodossa” della politica di consenso del Cremlino, si celano più velate allusioni alla divinità tutta secolare di Stalin.

[9] Riferimento alla volatilizzazione del risparmio popolare nella Georgia post-indipendenza (primi anni novanta), legata alla drastica svalutazione dei “tagliandi” (k’up’oni) che nel 1993 avevano provvisoriamente sostituito il rublo sovietico, all’inflazione galoppante e agli esperimenti politico-finanziari del nuovo governo nazionale. La situazione valutaria georgiana si è stabilizzata soltanto nel 1995 con l’introduzione del lari.

[10] Allusione alla stretta sul “mercato nero” promossa dal governo Saak’ašvili nel biennio 2004-2005 nel quadro della lotta alla corruzione. L’irreggimentazione delle economie informali dalle quali dipendeva la sussistenza degli agricoltori delle aree periferiche ha rappresentato un duro colpo per i residenti, senza distinzione tra georgiani e osseti.

[11] Vedi sopra, nota 3. L’iperbole ironizza sulle intere casse di documenti in bianco che secondo alcune voci sarebbero giunte in blocco da Mosca in previsione di una russificazione capillare (e in certi casi forzosa) dei residenti delle aree di confine.

Goderdzi Čokheli, «Il fiume dell’oblio» (1982)

Narratore, poeta e regista cinematografico, Goderdzi Čokheli (1954-2007) è autore di un nutrito corpus di novelle. Nella sua scrittura, sospesa tra l’ironia e il fiabesco, una moderna vena di realismo magico viene a colorare gli accenti mistici, epici e allegorici che per tradizione contraddistinguono la letteratura ambientata nel nord-est montanaro della Georgia, sulle rive ancestrali dell’Aragvi e dei suoi affluenti. Il fiume dell’oblio, pubblicato dal giovane autore a ridosso del suo esordio letterario, è un’enigmatica parabola fatta di ellissi e dettagli di colore dove il naturalismo estremo dei dialoghi, modellati sulle inflessioni vernacolari caratteristiche della parlata popolare, entra in risonanza con gli arcani intemporali del mito.

F.P.

გოდერ

Goderdzi Čokheli

Il fiume dell’oblio[1]

Lo videro per primi i ragazzetti del villaggio. Veniva avanti con una delle mani aggrappata a una stampella, mentre nell’altra aveva un fascio di piantine. Una delle gambe, si vede, gli era stata amputata, perché dal ginocchio in giù portava una protesi di legno. Alla vista dei ragazzini si fermò e fece loro segno con la mano:

            «Venite un po’ qui, voi!»

            I ragazzini gli si fecero incontro.

            «Non c’è mica nessuno che ha bisogno di piantine, qui nel vostro villaggio?»

            «Che genere di piantine?» vollero sapere quelli.

            «Ho qui degli alberelli di pero, una varietà che si scioglie in bocca. Se qualcuno ne vuole, io sono qui.»

            L’uomo sedette su una pietra lì vicino. I ragazzini tornarono alle loro case. Mentre sedeva l’uomo sciolse la fascina di alberelli, e intanto accarezzava ciascuno di loro come fanno le donne con il primo figlio, affaccendandosi intorno al bambino con mille premure. Li disponeva delicatamente uno per uno su un panno dispiegato per terra e a tutti teneva un discorsetto edificante:

            «Stammi un po’ a sentire, tu! Sei grande, ormai, tocca comportarsi da adulto. È vero che da queste parti gli inverni sono freddi, ma ti ci abituerai, nevvero, e allora non ti parrà più così male. La terra qui è fertile. Solo non metterti a bere troppa acqua tutta d’un colpo appena ti hanno piantato.»

            «Tu sei un po’ gracile di tronco, e finché non ti sei irrobustito devi andarci piano con i rami.»

            «A te, ragazzo mio, piace combinarne di belle, ma non farmi sfigurare con la gente di qui, siamo intesi? Questi sono montanari, capito, sono gente che le cose non le manda a dire.»

            «Non avrai mica paura, non avrai, eh? Che cos’hai da avere paura… Anch’io, tante volte, ti guardo e mi dico: davvero vuoi abbandonarlo alla mercé di questo clima? Badate bene a perdere le foglie il prima possibile quando arriva l’autunno. Da queste parti, mi sa, viene tanta di quella neve che buonanotte. Guai se vi sorprende con le foglie!»

            «E a te cosa ti piglia, che hai già iniziato ad appassire? Buttale fuori, queste radici, così non giova mica, no! Forza e coraggio, altrimenti…»

            «Ancora una delle tue! Finiscila di crescere in larghezza, non è ancora il momento per queste cose. Aspetta, che da queste parti girano gli orsi, e quelli ti pelano il tronco fino ai rami. Di lato crescerai poi, chi te lo impedisce: a quel punto né gli orsi né i cervi ci arrivano più.»

            L’uomo delle piantine era talmente assorto nelle sue concioni da non accorgersi neppure della piccola folla che gli si era radunata intorno.

            «Che varietà sono?» gli domandò la moglie di Pidua, prendendo in mano uno degli alberelli.

            «Pere gulabi[2]» rispose l’uomo, «sono tanto dolci che non vi dico…»

            «A quanto li fai?»

            «Quello che riuscite a darmi, lo prendo. Non sto a contrattare. Mi interessa che le mie piantine crescano forti e robuste ai quattro angoli della Georgia, il resto conta poco. È un’idea che mi sono messo in testa.»

            «Un alberello contro la lana di una pecora. Non mi dirai che è poco!»

            «Così sia, sta bene come dice lei. Vi chiedo solo un favore: lasciateli piantare a me. Lei capisce, praticamente sono carne della mia carne. Se non è disturbo, mi fermerei qui da voi una settimana per mettervi giù i peri. I primi tempi soffrirebbero troppo, senza di me, io li conosco, devono fare l’abitudine alla terra straniera. Fatico io che sono un uomo, ad ambientarmi da queste parti, allora fate un po’ il conto…»

            Ciascuno si prese gli alberelli che voleva, quanti ne voleva, e rincasando la gente portò con sé al villaggio anche l’ospite. Quel giorno fecero conoscenza con il nuovo arrivato e si abituarono ad avere tra loro l’uomo delle piantine.

            «Se vi interessa saperlo, mi chiamano Mart’ua, “il Solitario”» disse l’uomo delle piantine.

            «Che razza di nome è Mart’ua?»

            «Mi hanno sempre chiamato così, fin da ragazzo. Mi dicono “il Solitario” perché mi piace starmene per conto mio. Mi chiamano anche Kotila, ma io preferisco Mart’ua, ci ho fatto l’abitudine.»

            «Moglie e figli ce ne hai?»

            «Ne avevo, sì, ma…» L’uomo tacque.

            Sul proprio conto non disse nient’altro e nessuno gli fece più domande.

            L’indomani scavarono delle buche e Mart’ua interrò tutti gli alberelli con mille precauzioni, senza mai smettere di sussurrare ora all’uno, ora all’altro: «Conto su di te, ragazzo, non farmi perdere la faccia, non metterti subito a bere troppa acqua a stomaco vuoto, non combinarmene un’altra delle tue, non agitarti» e mille altre piccole ammonizioni dello stesso tenore.

            «Lo faccio sempre, vedete, ci sono abituato. Per forza, dico io: a quelli lì, se non gli spieghi le cose, da soli non ce l’hanno il senno da arrangiarsi.»

            La gamba di legno non gli consentiva di lavorare in ginocchio, per cui, quando piantava gli alberelli, si sdraiava prono sulla nuda terra e la camicia gli si sporcava tutta di argilla sul davanti. Rialzarsi era sempre una fatica.

            Quando ebbe terminato di piantare gli alberelli, fece un’ultima visita a ciascuno di loro, e ancora una volta li mise in guardia: non fare le bizze, non agitarti, non bere troppa acqua.

            La prima notte rimase a dormire in casa di Pidua, l’indomani fu ospite di Ladua.

            La mattina seguente la moglie del vecchio scese al villaggio lanciando grida di allarme:

            «La pietra! La pietra! Il grande masso! Chi l’ha spostato?» ululava.

            «Cosa? Dove?»

            «In cima al villaggio, nel bosco.»

            «Ma tu lo sai da quanti anni è lì, quella pietra? Non l’avevi mai vista, finora?» replicò il vecchio scoccando alla sua vecchia uno sguardo irritato.

            «Ma per forza che l’ho vista! Solo che adesso ce la prendiamo in testa.»

            «Come sarebbe a dire ce la prendiamo in testa!?»

            «Si è scalzato dalla terra e sta franando verso il villaggio.»

            «Te lo sarai sognato, donna! Non può mica rotolare via, un pietrone così. È conficcato per metà nel terreno, come fa a scalzarsi da solo? Non ha mica le gambe come noi.»

            «Salite e andate un po’ a vedere con i vostri occhi!» tagliò corto la moglie del vecchio facendo strada. Andò con loro anche l’uomo delle piantine.

            Rimasero paralizzati per l’orrore. Era tutto vero: la pietra era divelta dal terreno e rischiava di franare in direzione del villaggio.

            «Se rotola giù, la mia casa è la prima» constatò il vecchio atterrito.

            «E poi tocca alla mia» gli fece eco Ladua con un tremito nella voce.

            «E poi la mia.»

            «E poi la mia» calcolavano atterriti gli abitanti del villaggio.

            «Bella… e adesso come lo spostiamo un pietrone così?»

            La gente del villaggio rabbrividiva per lo spavento, come la pietra fosse già rotolata a valle distruggendo le loro case, anzi, come se l’Aragvi nero in piena si fosse abbattuto sul villaggio, la corrente avesse spazzato via le case e loro fossero rimasti senza un tetto sulla testa; anzi, come se l’Aragvi avesse minacciato di straripare, portandosi via anche gli inquilini[3]. Bisogna fuggire, lasciarsi alle spalle il fiume che minaccia di travolgerli con i suoi flutti lutulenti, ma non c’è via di scampo in vista e il peggio può accadere da un giorno all’altro. La pietra è un macigno colossale, se rotolasse a valle nessun muro e nessun contrafforte potrebbero trattenerla.

            «E se le scavassimo la terra sotto? Non riusciremmo a sloggiarla?» propose il vecchio, che aveva avuto un’idea.

            «Sotto è tutta roccia, non ci puoi scavare. E anche se potessi, ci vai tu, a spalare terra da lì sotto? Come quella si muove, ci spiaccica tutti.»

            «Eh, un sistema per togliere di mezzo la pietra a me sarebbe anche venuto in mente.»

            «E come vorresti fare?»

            «Piano piano, un pezzettino per volta, ve la frantumo a martellate finché non si riesce a spostare.»

            Quel giorno stesso ebbe inizio il suo calvario. Spaccare la roccia si rivelò più difficile del previsto. Al tramonto era riuscito a spiccarne solo un piccolo frammento.

            «Ti si dà una mano anche noi» proposero il vecchio e gli altri uomini del villaggio.

            «No, è meglio non mettersi in troppi, c’è il rischio che la pietra si muova» rispose l’uomo. «Io da solo, invece, pian pianino…»

            Martellava dalla mattina alla sera, le mani gli sanguinavano, eppure lui continuava a picchiare. I pezzi che staccava li deponeva in buon ordine per terra. Martellò per un’intera settimana fino a sbiancare in volto, ma la pietra era ancora lì. La sera scendeva a salutare i suoi alberelli e sussurrava loro:

            «Niente paura! Di qui non me ne vado prima di avere fatto piazza pulita di quel maledetto pietrone. È dura, ma che ci volete fare? In un modo o nell’altro lo spaccherò. Non posso mica riprendervi con me, è vergogna. Che cosa direbbero quelli là? Su, tranquilli, io sono un uomo di parola!»

            Era una prova di forza tra l’uomo delle piantine e il macigno. La pietra non aveva alcuna intenzione di cedere. Più la scalpellavano, più si induriva.

            A poco a poco gli alberelli misero fuori delle gemme. La primavera era alle porte.

            L’Aragvi aveva iniziato a gonfiarsi, ad agitarsi, a rumoreggiare.

            Un giorno degli sconosciuti si presentarono al villaggio. Avevano la pelle bruna, indossavano panni variopinti e parlavano un georgiano zoppicante.

            L’uomo delle piantine non si accorse del loro arrivo. Il bosco aveva di nuovo messo le foglie e il villaggio non si vedeva più. Lui stesso aveva smesso di scendere la sera, perché il tragitto lo affaticava troppo. Si coricava sul posto avvolto nella sua cappa di feltro da pastore e conversava con la pietra.

            «Insomma non ti vuoi spezzare, eh? Non vuoi saperne, non vuoi! Così non va, là sotto c’è un villaggio, ci vive della gente, e tu minacci di sbriciolare le loro case. Ci sono anche degli alberelli nuovi, certe pere che neppure te le immagini…mmh! Così non possiamo andare avanti, bisogna che ti spezzi.»

            Mentre ragionava così, l’uomo delle piantine cadeva addormentato e giaceva come un corpo inerte fino alle prime luci dell’alba. I ragazzini salivano a portargli da mangiare. Gli dissero anche dell’arrivo dei gitani:

            «Dice che sono venuti degli indovini.»

            L’uomo delle piantine non fece caso a quelle parole. Non era la prima volta che sentiva parlare di girovaghi in transito.

            Con l’arrivo degli zingari la smania di sapere si era impadronita della gente del posto. Avevano fatto tanto d’occhi quando li avevano sentiti citare dettagli precisi sulla vita nel loro villaggio.

            «Il cielo viene e ci si avvicina! Il cielo viene e ci rivela i vostri destini» biascicava una vecchia gitana.

            Più tardi, quando si furono convinti che la gente credeva ai loro poteri, gli zingari dichiararono:

            «Se in famiglia avete oggetti di valore e volete sapere che cosa il destino ha in serbo per voi, portateceli questa notte stessa. Noi li metteremo sotto il cuscino, ci dormiremo sopra e la mattina sapremo tutto delle vostre vite.»

            La gente esitava ancora ad affidare loro degli oggetti preziosi. I gitani si erano accampati a una certa distanza dal villaggio e intendevano passare la notte laggiù.

            La moglie del vecchio consegnò loro una cintura d’argento. Pidua diede loro un pugnale.

            Altri non vollero sbilanciarsi.

            Imbruniva. I girovaghi tornarono all’accampamento per dormire, portando con sé gli oggetti di valore.

            L’uomo delle piantine rimase sveglio fino a tarda notte per martellare la pietra. Nessuno, quel giorno, si era ricordato di portargli da mangiare. Erano tutti in preda allo stupore per i vaticini dei girovaghi. All’uomo si erano addormentate le mani, le spalle avevano iniziato a cedergli. Quando fu notte, si sfilò la gamba di legno.

            La gente del villaggio attese con impazienza lo spuntare del nuovo giorno. L’indomani, di buon mattino, i girovaghi tornarono al villaggio e raccontarono al proprietario di ciascun oggetto la storia del suo passato.

            Adesso sì che la gente credeva davvero ai loro poteri.

            «Domani vi diremo anche il futuro, ma per farlo è indispensabile che stanotte dormiamo con i vostri beni più preziosi sotto il cuscino, soltanto così potremo venire a sapere tutto per filo e per segno.»

            Ormai nessuno dubitava più del potere miracoloso dei gitani, e chi aveva in casa un oggetto prezioso si affrettò a consegnarlo.

            I girovaghi tornarono all’accampamento per dormire.

            Anche quella notte l’uomo delle piantine rimase a stomaco vuoto. Nessuno si ricordava più della sua esistenza.

            La neve sui monti si era sciolta e l’Aragvi era in piena. Correva scuro scuro, terribile a vedersi, agitando i suoi flutti color del catrame.

            Annottava.

            Dal villaggio si scorgeva chiaramente il falò acceso nello spiazzo dell’accampamento gitano.

            Sul far della sera uno dei girovaghi salì al villaggio e disse: «Questa notte voleremo in cielo per domandare a Dio di svelarci il vostro futuro. Prima di volare in cielo, però, getteremo un incantesimo sul vostro fiume, che diventerà il fiume dell’oblio. Se volete che interroghiamo Dio sul vostro futuro, bisogna che dimentichiate il vostro passato, almeno per un giorno. Domattina bevete tutti dell’acqua del fiume e rimanete in silenzio fino a sera, senza pronunciare una parola. La sera ridiscenderemo a terra, vi restituiremo i vostri oggetti di valore e vaticineremo sul vostro avvenire».

            Quella notte l’uomo delle piantine stentò a prendere sonno, tanto gli dolevano le giunture. Aveva anche una gran fame, ma si vergognava di rientrare al villaggio per chiedere del cibo.

            Alle prime luci dell’alba gli abitanti del villaggio scesero alla riva del fiume per bere delle sue acque. Dei gitani non c’era più traccia.

            «Io li ho visti volare su in cielo» si pavoneggiò la moglie del vecchio.

            «Li ho visti anch’io» disse Pidua: «Erano tutti avvolti da un alone di fuoco».

            Bevvero l’acqua dell’Aragvi e attesero il tramonto senza pronunciare una parola, obbedendo alle raccomandazioni dello zingaro.

            Quella notte le ultime forze residue abbandonarono l’uomo delle piantine, stanco di martellare la roccia. A mezzogiorno si accasciò stremato sul pietrone.

            La gente del villaggi, intanto, attende il miracolo con gli occhi rivolti verso il cielo. Attendono che un prodigio riporti sulla terra gli zingari saliti in cielo perché possano predire loro il futuro. Nessun osa aprire bocca. Dall’alto del bosco, a malapena udibile, giunge la voce dell’uomo delle piantine:

            «Portatemi su da bere, gente, vi prego!» Poi anche quella ammutolisce e il silenzio è rotto soltanto dal rombo dell’Aragvi impetuoso.

            Il sole a poco a poco inizia a declinare. La gente del villaggio scruta con occhi febbrili il cielo violetto. Ce ne stanno mettendo di tempo a scendere da lassù, gli zingari miracolosi! L’Aragvi intanto infuria, ha nelle viscere il fremito della primavera, ruggisce agitando la sua criniera di spuma.

            L’uomo delle piantine chiama a raccolta le sue ultime forze residue e cinge il macigno con le braccia, avvinghiandosi alla pietra. In tutta la giornata è riuscito a staccarne solo tre piccoli frammenti, e sul far della sera si sente stremato, senza più una goccia di energia in corpo. Anche i suoi alberelli hanno sentito la primavera e sono esplosi in un tripudio di fiori bianchi. «Non è ancora detta l’ultima parola» pensa l’uomo delle piantine. Squadra la pietra di sottecchi e le dice: «Ti faccio a pezzi, ti faccio, a te!».

            Il sole si corica all’orizzonte. La gente del villaggio è ancora lì, con gli occhi spalancati contro un cielo che va impallidendo, ma non si vede scendere nessuno.

            Si fa notte. Gli alberelli in fiore biancheggiano nel buio. Dall’alto della collina l’uomo degli alberi riesce a intravederli, ma è troppo debole per scendere fino al villaggio.

            Gli abitanti del posto hanno passato la notte in bianco, in spasmodica attesa. Come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa.

            Quando si fa giorno il giardiniere non riesce più a reggersi in piedi, il suo corpo si è fatto troppo pesante. Appoggia la schiena contro la roccia.

            Il cielo sogghigna con aria d’intesa e non rivela alcun miracolo alla gente del villaggio.

            Di lì a due giorni caddero tutti dalle nuvole: qualcuno aveva visto passare gli zingari a cavallo a vari chilometri di lì.

            Alcuni uomini si gettarono all’inseguimento, ma rincasarono a mani vuote.

            «Ma come facevano, allora, a sapere i fatti nostri?» Nessuno ci si raccapezzava.

            Finché la moglie del vecchio disse:

            «L’uomo delle piantine!»

            Soltanto allora la gente del villaggio si ricordò della sua esistenza.

            «Possano mozzarmi la testa se non è stato lui a spifferare agli zingari i nostri segreti» concluse la vecchia.

            «Come, come? Che cosa centra lui!?»

            «C’entra, perché la notte andava dagli zingari a raccontare loro i fatti nostri. Ecco perché era sempre troppo stanco per scendere a dormire al villaggio.»

            La gente del posto, amareggiata e sconvolta, voleva ormai una cosa soltanto: alcuni sapevano benissimo che l’uomo non c’entrava nulla, ma ormai erano in preda alla smania di vendetta, e in quei momento l’uomo ha bisogno di agire, di fare qualcosa, qualunque cosa sia.

            A nulla servirono le suppliche del malcapitato giardiniere:

            «Amici, spiegatemi qual è il problema, che male vi ho fatto, io?»

            La folla non volle ascoltare ragioni e mosse in direzione dell’Aragvi impetuoso; strada facendo la gamba di legno dell’uomo si sfilò.

            «Piano, mi si è staccata la gamba. Che fate, amici, che fate? Spiegatemi qual è il problema» implorava l’uomo delle piantine rivolto alla gente inferocita, ma i flutti dell’Aragvi inghiottirono le sue urla e per un bel pezzo non si vide più neppure lui. Soltanto una volta la corrente lo riportò a galla, e non saprei dire se lo sventurato uomo delle piantine vedesse o non vedesse con quale sfoggio di fiori bianchi i suoi alberelli salutavano impazienti l’arrivo della primavera nella gola di Gudamaq’ari.

            «Visto? Eccolo qui il tuo fiume dell’oblio!» gridarono trionfanti le persone radunate sulle sponde dell’Aragvi, talmente convinti che l’uomo delle piantine fosse in combutta con i gitani da trovare sollievo nell’idea di avergliela fatta pagare.

            Il fiume dell’oblio, però, scorreva via con le sue acque lutulente, tanto che nel giro di breve tempo nessuno, nel villaggio, si ricordava più degli zingari e del giardiniere. A quanto pare, però, la natura non dimentica mai nessuno, perché ogni primavera, al ricorrere dei giorni in cui l’uomo delle piantine era stato scaraventato nell’Aragvi in piena, certi peri colossali fiorivano in un’esplosione di bianco. Quel tripudio di candore è il miracolo più grande che alla gente di Gudamaq’ri sia mai stato concesso di ammirare, e l’uomo non sa quale forza comandi ai fiori di sbocciare, o da quali sorgenti sgorghi il fiume dell’oblio, o dove vada a sfociare, o se abbia un senso questo nostro agitarsi sulla terra, dal momento che il fiume si porta via senza fare distinzioni le cose più importanti come le più triviali.

            Forse però un senso tutto questo ce l’ha, altrimenti perché i peri fiorirebbero così?

Traduzione dal georgiano di Francesco Peri

© Francesco Peri 2016

[1] Non saprei dire se il racconto figuri anche nella raccolta L’Aragvi nero, trad. di Donata Banzato, Padova, GB, 1990, che non ho ancora avuto modo di sfogliare. Sarebbe curioso se l’unico prosatore georgiano della sua generazione a venire mai pubblicato in Italia fosse stato tradotto due volte, ma le condizioni di ricezione sono talmente mutate che il peccato, se c’è, è veniale (NdT).

[2] Varietà indigena georgiana, molto apprezzata ancora oggi.

[3] L’Aragvi nero è uno degli affluenti dell’Aragvi, uno dei fiumi iconici della Georgia. Scorre nella gola di Gudamaq’ri, sulle pendici del Caucaso, dove sono ambientati molti dei racconti dell’autore.

Two thematic repertoires of Georgian vocabulary

Vocabulaire géorgien pour l’autoformation, s.i.l., T&P Books, 2014, 241 pages.

Lia Abuladze, Andreas Ludden, Grundwortschatz Georgisch, Hamburg, Buske Verlag, 2011, 371 pages.

Thematic repertoires can be a mixed blessing for students aiming at fluency. Such glossaries tend to provide either too little or too much information, and they suffer from an inherent compulsion to flesh out their categories and subcategories with specialized terminology of dubious practical helpfulness. Liquid manure, wombats, and ignition coils should not be a priority for intermediate learners seeking to expand their vocabulary, particularly if words are being assimilated out of context. As a supplement to a well-balanced study routine, however, a competently arranged lexical repertoire can provide perspective and motivation. As it happens, in the slowly but consistently expanding market for Georgian learning resources two such publications have gone to print in recent times. Both have merits and deserve to be examined.

One of them, Vocabulaire géorgien pour l’autoformation, was a quite unexpected and pleasant surprise (actually more like a miracle). The book is part of a print-on-demand collection of bilingual repertoires that can be obtained from the publisher’s website in a great variety of linguistic pairings, now including French-Chechen. In my experience, such resources are usually computer-generated from databases and hardly ever proofread, which results in all manners of blunders, grammatical mismatches, and semantic misalignments. In this particular case, however, a competent if anonymous hand must have been at work on the “manuscript”, as no blatant mistakes could be detected, and potential ambiguities resulting from the peculiarities of either language have been intelligently taken care of.

The repertoire consists of about 9000 individual entries arranged in 256 thematic categories, which is certainly respectable. Each line consists of a French word, its Georgian counterpart in mkhedruli, and a transliteration in Latin characters. Repetitions happen, but typos are surprisingly rare. Of verbs, only the mazdar is given, which is obviously insufficient for all practical intents, but not entirely inadequate for purposes of self-testing or rote memorization. All in all, this dignified word list will prove more useful and occasionally more challenging than even an advanced student of the language would care to admit. It comes with no academic credentials to speak of, but it is solid, reliable enough, and not pasted from Google Translate – which is plenty. Additionally, how ironic!, this self-produced edition is currently the only decent resource for the study of Georgian currently available in French. A crying shame, considering the unique role that France has played in the history of the Georgian diaspora!

A honest, practical, no-frills addition to one’s library.

***

Abuladze and Ludden’s Grundwortschatz Georgisch [Core Vocabulary of Georgian] plays in quite another league. In fact, it is easily the best thematic glossary I have ever encountered and the most useful learning resource to come out of the 21st century German nouvelle vague of kartvelian studies. More selective in scope than its more rustic French counterpart (it covers about 3.800 words), it is exceptionally rich in information. Not only was it written with a motivated student in mind (the Vocabulaire géorgien is much more amorphous and quelconque), but it was obviously conceived by people who know what a learner needs, what difficulties he faces, and what precautions can boost his learning experience.

Words and concepts have been purposefully selected to cover the spectrum of the situations, emotions, objects, and spatial-temporal relationships that fall within the scope of intermediate to advanced conversation about real-life experience. One would be hard pressed to point out a superfluous or ludicrous entry. No liquid manure or ignition coils in here. To get angry, to be late, to lie, to sit, to hang from a wall, to borrow, to pass an exam… The authors do not just provide a mere word for another word, leaving the reader to fend for himself, but actually show and teach him how these states of things are best described and talked about in Georgian.

They do so by supplementing each entry with one or more practical examples, and some examples they are! While the sentences are short and simple enough to be readable without too much dictionary-thumping (a German translation is always provided anyway), they are packed to the brim with useful syntax, additional vocabulary, notable verbal forms, quotable utterances, recurring patterns, and idiomatic constructions. Exceptional care must have gone into the crafting and balancing of this apparatus. Not only do these sentences “ring true”, unlike the usually stilted scraps of conversation found in language textbooks, but they have been meticulously engineered to provide at all times an extra bit of insight or information to suit all needs. “Wow, so this is how you really say this!” Or, more realistically: “Eureka, so this is what I should have said instead!”

All verb entries are accompanied by four or five such propositions, each of them illustrating one of the major tense-aspect-mood patterns of the Georgian verbal system (and its inherent syntax) in a sort of applied and not merely abstract paradigm. Again, useful knowledge is squeezed into every clause. This goes a long way beyond the “mazdar-for-infinitive” approach, reaching deep into the living territory of how a language is actually spoken. Should one for some reason memorize these 5000+ examples, or learn how to produce equally idiomatic utterances for each given situation, his command of the language would be just about complete. Then it would make sense to have a conversation about wombats (or not).

A thematic vocabulary that is a genuine pleasure to read and will prove an enduring source of challenge and information for even a fairly experienced kartvelologist. In fact, the grammar and rhetoric of everyday conversation are probably the most imperfectly documented aspect of the language so far, and this Grundwortschatz Georgisch does a good job of providing useful drills and authentically sounding specimens of how Georgian natives think linguistically.

Here is a randomly selected instance.

თარო, “shelf”, is exemplified as follows:

რას გიდევს ამ თაროზე?

“What is lying-for-your-benefit [i.e. you have lying] on that shelf?”

in plain English:

“What do your keep on that shelf?

The entry for დივანი, “sofa”, comes with the following sentence:

ჩვენი კატა დივანზეა მოკალათებული

“Our cat is lying curled up on the sofa”

Both verbs revolve around the notion of “lying on a flat surface”, but Georgian encodes each situation in grammatically, syntactically, and semantically unrelated ways depending on the way the item is actually weighing on the surface: whether it is inanimate or animate, serving a purpose or not, just being there or intentionally resting etc. One strikes such gold at every page.

If you can handle German and are serious about mastering the subtleties of Georgian, especially if you are facing the tough transition from intermediate to advanced without the guidance of a teacher, you should definitely consider purchasing a copy!

H. Fähnrich et al., Georgische Verben (2013)

Heinz hnrich, Nana Odischelidse, Natia Reineck, Georgische Verben (mit deutschen Entsprechungen und Satzbeispielen), 3 vols., Aachen, Shaker Verlag, 2013, 2580 pages.

Spoiler alert: with the obvious exception of Tschenkeli’s works, this is by far the best money I ever spent on a Georgian resource (and heaven knows I have not been sparing in that department). These three sturdy, information-packed, azure-covered tomes may be quite a splurge for some (they currently retail at 119 €), but to the serious-minded student or the professional scholar of kartveliana – all two and a half of them! – they will be worth every cent. In fact, I can’t suppress a shiver of excitement and gratitude for their very existence any time I pick one up, which is often.

Up until now, advanced learners who had outgrown the stage of mere glossaries and lexica would fall prey to feelings of disorientation, bewilderment, and insecurity as soon as they attempted to tackle original sources without the help of a native teacher: existing dictionaries do a fairly good job of covering nouns and adjectives, but we have been sorely lacking an adequate and handy presentation of the Georgian verbal corpus, whose hair-rising complexity is deservedly notorious. More often than not, one would find himself stuck, uncomfortably puzzling over the origin and meaning of some mysterious pluperfect or relational form.

As far as dictionaries go, some lexicographers have indexed verbs by their so-called mazdar, a sort of peculiarly Georgian infinitive-cum-deverbal, which is a compact but rather inefficient way of conveying information about the way a particular verb and its manifold variations are going to behave in practice, morphologically and syntactically.

Others, replicating the pattern of Arnold Čikobava’s monumental Kartuli enis ganmart’ebiti leksik’oni (KEGL), have listed each form individually, as a separate dictionary entry, ordering the material alphabetically by prefix or pre-radical vowel. In such cases, verbs are generally found at the third person singular of the future, from which most present and past forms can be inferred within reasonable margins of predictability. This approach has its merits, but it can be confusing, as it breaks down what is more aptly conceived of as a tightly knit semantic and morphological continuum into unrelated bits of information, and therefore fails to convey a synoptic and organic overview of a verbal entity’s manifold permutations and possibilities. Additionally, this approach is sometimes impractical when verbs exhibit phenomena of ablaut or stem alternation in the aorist-optative and perfect-pluperfect series.

The most expedient solution so far, according to experience, is Kita Tschenkeli’s choice to collect and arrange verbal forms encyclopedically by their root. In his classic three-volume Georgian-German dictionary, each entry is structured as a small microcosm of verbal forms that share the same radical DNA. These forms, in turn, are arranged in a hierarchical and systematic fashion, allowing the author to cover the entire spectrum of directional, aspectual, referential, and grammatical possibilities. The practical drawback of this approach, whose scholarly merits are invaluable, is in the overwhelming mass of densely typeset information through which one has to wade in order to find the particular form they were looking up.

This is where Georgische Verben comes in. While technically speaking Heinz Fähnrich and his co-authors have followed quite closely in Tschenkeli’s wake, whose taxonomic principles they wholeheartedly embrace, they do improve to some extent on their predecessor’s contribution by injecting some air and typographic user-friendliness into the Wörterbuch’s dauntingly compact template. The principle is roughly the same: verbal forms are listed under their root and arranged alphabetically within grammatical groups and subgroups (transitive, reflexive, passive, relational, inversive etc.). For each sub-entry – that is, each “verb” – a complete paradigm is provided (present, future, aorist, perfect) and a bilingual example is added to clarify usage. The authors have aimed for inclusiveness: whereas the open-ended combinatory mechanics of the kartvelian verb defy a “complete” classification of any sort, one would be safe to assume that hardly any form even occasionally found in reputable usage will be missing from this survey. Under წერ- (write) alone, 62 individual verbs are listed and duly clarified. The very elegance and logical cogency of the material’s arrangement and presentation invites random page-turning and makes for exciting discoveries, which is sensational for a work this barren and technical.

Another piece of good news, as I have ascertained to my immeasurable relief after deciding to fork out the appropriate amount of dough in the absence of relevant information, is that the three volumes do not contain a single ounce of fat. Far from being artificially blown up with repetitious and largely superfluous conjugations tables, as is often the case with systematic resources of this kind, the 2580 pages of this magnum opus are literally packed with unique, essential, synthetic, and useful information about pretty much every verbal form that has or may claim a right of citizenship in written Georgian.

I have never quite understood what the purpose of verb-table books ought to be: a student who finds any use for semantically advanced material will probably have no need to have those verbs conjugated in all tenses and moods for him; and vice versa, a beginner or intermediate learner who needs his hand held through the intricacies of the Georgian verbal system may struggle to savor the delights of sartorial or agricultural vocabulary. Either way, with few interesting exceptions, mere ballast inevitably tends to prevail.

In more ways than one, Fähnrich’s Georgische Verben is to the Georgian verb what Daum and Schenk’s Russische Verben has been to consecutive generations of German-speaking Slavic scholars: the go-to grimoire, the ultimate reference, the must-have enchiridion of aspectual and semantic subtleties, a watershed between amateurs and pros. In fact, Russian verbs are by far more stable, transparent, and self-explanatory than their erratic and meandering Georgian counterparts, making this work immeasurably more helpful in practice than any other specimen of the kind. The psychological relief it provides is dramatic: at long last, one feels that no matter what kind of text he is attempting to read, his back will be covered; that the answer, or hints to an answer, will unfailingly be found somewhere in the book. No more staring at weird aorists or perfects in the vain attempt to reconstruct the verb’s dictionary form! No more guessing at what a certain directional prefix does to a verb’s meaning in that particular context! Over a year into using this book every day, I cannot imagine myself not having it on my desk, or even remotely considering myself an expert of Georgian without owning this magic open-sesame. Alas, one needs to be a little more than conversant with the subtleties of the German language to get enough mileage out of it, but it is common knowledge that at least since Tschenkeli, one has to be a consummated Germanist to be a Kartvelologist.

Now for some of my reservations. They are minor, but possibly worth mentioning. One of them concerns the lack of all paratexts: there is no preface, no bibliography, no elevator pitch, no appendix, no attempt to argue for the inclusion or exclusion of particular information. I do like a laconic, no-nonsense, hands-on reference work, but  this is taking it a little too far, especially when one considers that we are dealing with the verb dictionary to end all verb dictionaries, at least for Georgian. Some context would have been appreciated.

Another drawback, much more awkward in practice, is in the lack of cross-referencing between apophonic and standard forms of each given verbal root (to say nothing of suppletive stems). This is a noticeable step back from Tschenkeli in terms of user-friendliness. Particularly when single-vowel or no-vowel stems are involved. Whereas Tschenkeli was obliging enough to redirect the reader when disambiguation or  a hint were required (“ყარ1 siehe ყოლ; ყარ2 siehe ყრ”), in this case you just have to know beforehand that, say, თმინ- derives from თმენ-, that ყოლ- should be looked up under ყლ-, and that the ყოლ- in (მო)აყოლებს (“he narrates”) is just not the ყოლ- in (ა)აყოლებს (“he assigns X to Y as an escort”, “he causes X to accompany Y”). In other words, beginners might find the break-in process a little daunting at times. It takes a fair degree of ear training and familiarity with the patterns of vowel alternation across the three Georgian tense-mood series to really get going. In many an instance, I have found myself double-checking a stem in Tschenkeli’s generously cross-referenced root repertoires before I attempted to fish for the right entry in Fähnrich.

A third setback, quite excusable for a practically-minded translator but possibly troublesome for a corpus linguist or a language historian, concerns the examples, most of which are quite obviously lifted from Georgian literary classics (I have recognized more than one excerpt), but whose authors and sources are never cited. This is all the more surprising as many of those sentences appear to be borrowed from the KEGL, where author names are black on white. This is a letdown, because a wealth of important implications can be inferred from the spatial and temporal coordinates of a mere person’s name: Georgian is a diachronically stable but regionally highly volatile language, and whether an author hails from the mountainous North or the sunny seaside, or whether he is writing in the long czarist century on in high-Soviet times, is not at all immaterial to the stylistically and culturally informed decipherment of a verbal form. I know I am grateful for the KEGL’s slightly more detailed presentation!

Finally, the sheer amount of available data might discourage even a motivated learner, as no attempt whatsoever has been made to discriminate between rare and only theoretically viable forms and frequently recurring mainstays of everyday Georgian talk. In other words, no details are provided as to frequency, rhetorical register, and other such parameters. A respectable choice, but one that undermines the didactic potential of the work: buried in a sea of minor nuances lie a few hundred fixed forms and ossified special meanings (ეტყობა, etc.) that it might have been expedient to highlight typographically or collect in an appendix for the student to learn right away, in bulk. Idioms and special collocations, too, have to be gleaned haphazardly from the token sentences, when they happen to feature one, which compares rather unfavorably to the KEGL.

This is slightly problematic, too, for meanings are occasionally attributed to verbs as a part of their core semantic spectrum that only have a reason to exist within specific idioms. For example the verb დაიწერს, “he will write in his own interest”, is translated among other things on p. 2162 as “er heiratet” (he gets married), ostensibly in view of the expression ჯვარს დაიწერს, “he will trace a cross for his own benefit”, which is a synonym of დაქორწინდება, “he will get married”. More often than not, after this fashion, illustrative sentences are used to explore uncharted idiomatic depths, which is immediately apparent and fairly useful to the expert user, but might confuse a novice. A line or two to this effect in a preface or a usage guide would have not been too many.

These cursory observations should by no means detract from an enthusiastic appreciation of this resource, whose appearance in print constitutes a major landmark in kartvelian studies. Yet another testament to Heinz Fähnrich’s indefatigable contribution to the field, Georgische Verben is nothing short of exciting. While, at a stretch, the bulk of the raw information it provides could theoretically be milked or inferred from Tschenkeli or Donald Rayfield’s Comprehensive Georgian-English Dictionary, the comfort of use, dependability, precision, and thoroughness of these three volumes powerfully contribute to end the pioneer era of karvelology. At last, enough professional resources exist for Georgian to be dealt with competently from the vantage point of adequate scholarship. For a translator such as myself, this is where the going gets tough!