Narratore, poeta e regista cinematografico, Goderdzi Čokheli (1954-2007) è autore di un nutrito corpus di novelle. Nella sua scrittura, sospesa tra l’ironia e il fiabesco, una moderna vena di realismo magico viene a colorare gli accenti mistici, epici e allegorici che per tradizione contraddistinguono la letteratura ambientata nel nord-est montanaro della Georgia, sulle rive ancestrali dell’Aragvi e dei suoi affluenti. Il fiume dell’oblio, pubblicato dal giovane autore a ridosso del suo esordio letterario, è un’enigmatica parabola fatta di ellissi e dettagli di colore dove il naturalismo estremo dei dialoghi, modellati sulle inflessioni vernacolari caratteristiche della parlata popolare, entra in risonanza con gli arcani intemporali del mito.
F.P.
Goderdzi Čokheli
Il fiume dell’oblio[1]
Lo videro per primi i ragazzetti del villaggio. Veniva avanti con una delle mani aggrappata a una stampella, mentre nell’altra aveva un fascio di piantine. Una delle gambe, si vede, gli era stata amputata, perché dal ginocchio in giù portava una protesi di legno. Alla vista dei ragazzini si fermò e fece loro segno con la mano:
«Venite un po’ qui, voi!»
I ragazzini gli si fecero incontro.
«Non c’è mica nessuno che ha bisogno di piantine, qui nel vostro villaggio?»
«Che genere di piantine?» vollero sapere quelli.
«Ho qui degli alberelli di pero, una varietà che si scioglie in bocca. Se qualcuno ne vuole, io sono qui.»
L’uomo sedette su una pietra lì vicino. I ragazzini tornarono alle loro case. Mentre sedeva l’uomo sciolse la fascina di alberelli, e intanto accarezzava ciascuno di loro come fanno le donne con il primo figlio, affaccendandosi intorno al bambino con mille premure. Li disponeva delicatamente uno per uno su un panno dispiegato per terra e a tutti teneva un discorsetto edificante:
«Stammi un po’ a sentire, tu! Sei grande, ormai, tocca comportarsi da adulto. È vero che da queste parti gli inverni sono freddi, ma ti ci abituerai, nevvero, e allora non ti parrà più così male. La terra qui è fertile. Solo non metterti a bere troppa acqua tutta d’un colpo appena ti hanno piantato.»
«Tu sei un po’ gracile di tronco, e finché non ti sei irrobustito devi andarci piano con i rami.»
«A te, ragazzo mio, piace combinarne di belle, ma non farmi sfigurare con la gente di qui, siamo intesi? Questi sono montanari, capito, sono gente che le cose non le manda a dire.»
«Non avrai mica paura, non avrai, eh? Che cos’hai da avere paura… Anch’io, tante volte, ti guardo e mi dico: davvero vuoi abbandonarlo alla mercé di questo clima? Badate bene a perdere le foglie il prima possibile quando arriva l’autunno. Da queste parti, mi sa, viene tanta di quella neve che buonanotte. Guai se vi sorprende con le foglie!»
«E a te cosa ti piglia, che hai già iniziato ad appassire? Buttale fuori, queste radici, così non giova mica, no! Forza e coraggio, altrimenti…»
«Ancora una delle tue! Finiscila di crescere in larghezza, non è ancora il momento per queste cose. Aspetta, che da queste parti girano gli orsi, e quelli ti pelano il tronco fino ai rami. Di lato crescerai poi, chi te lo impedisce: a quel punto né gli orsi né i cervi ci arrivano più.»
L’uomo delle piantine era talmente assorto nelle sue concioni da non accorgersi neppure della piccola folla che gli si era radunata intorno.
«Che varietà sono?» gli domandò la moglie di Pidua, prendendo in mano uno degli alberelli.
«Pere gulabi[2]» rispose l’uomo, «sono tanto dolci che non vi dico…»
«A quanto li fai?»
«Quello che riuscite a darmi, lo prendo. Non sto a contrattare. Mi interessa che le mie piantine crescano forti e robuste ai quattro angoli della Georgia, il resto conta poco. È un’idea che mi sono messo in testa.»
«Un alberello contro la lana di una pecora. Non mi dirai che è poco!»
«Così sia, sta bene come dice lei. Vi chiedo solo un favore: lasciateli piantare a me. Lei capisce, praticamente sono carne della mia carne. Se non è disturbo, mi fermerei qui da voi una settimana per mettervi giù i peri. I primi tempi soffrirebbero troppo, senza di me, io li conosco, devono fare l’abitudine alla terra straniera. Fatico io che sono un uomo, ad ambientarmi da queste parti, allora fate un po’ il conto…»
Ciascuno si prese gli alberelli che voleva, quanti ne voleva, e rincasando la gente portò con sé al villaggio anche l’ospite. Quel giorno fecero conoscenza con il nuovo arrivato e si abituarono ad avere tra loro l’uomo delle piantine.
«Se vi interessa saperlo, mi chiamano Mart’ua, “il Solitario”» disse l’uomo delle piantine.
«Che razza di nome è Mart’ua?»
«Mi hanno sempre chiamato così, fin da ragazzo. Mi dicono “il Solitario” perché mi piace starmene per conto mio. Mi chiamano anche Kotila, ma io preferisco Mart’ua, ci ho fatto l’abitudine.»
«Moglie e figli ce ne hai?»
«Ne avevo, sì, ma…» L’uomo tacque.
Sul proprio conto non disse nient’altro e nessuno gli fece più domande.
L’indomani scavarono delle buche e Mart’ua interrò tutti gli alberelli con mille precauzioni, senza mai smettere di sussurrare ora all’uno, ora all’altro: «Conto su di te, ragazzo, non farmi perdere la faccia, non metterti subito a bere troppa acqua a stomaco vuoto, non combinarmene un’altra delle tue, non agitarti» e mille altre piccole ammonizioni dello stesso tenore.
«Lo faccio sempre, vedete, ci sono abituato. Per forza, dico io: a quelli lì, se non gli spieghi le cose, da soli non ce l’hanno il senno da arrangiarsi.»
La gamba di legno non gli consentiva di lavorare in ginocchio, per cui, quando piantava gli alberelli, si sdraiava prono sulla nuda terra e la camicia gli si sporcava tutta di argilla sul davanti. Rialzarsi era sempre una fatica.
Quando ebbe terminato di piantare gli alberelli, fece un’ultima visita a ciascuno di loro, e ancora una volta li mise in guardia: non fare le bizze, non agitarti, non bere troppa acqua.
La prima notte rimase a dormire in casa di Pidua, l’indomani fu ospite di Ladua.
La mattina seguente la moglie del vecchio scese al villaggio lanciando grida di allarme:
«La pietra! La pietra! Il grande masso! Chi l’ha spostato?» ululava.
«Cosa? Dove?»
«In cima al villaggio, nel bosco.»
«Ma tu lo sai da quanti anni è lì, quella pietra? Non l’avevi mai vista, finora?» replicò il vecchio scoccando alla sua vecchia uno sguardo irritato.
«Ma per forza che l’ho vista! Solo che adesso ce la prendiamo in testa.»
«Come sarebbe a dire ce la prendiamo in testa!?»
«Si è scalzato dalla terra e sta franando verso il villaggio.»
«Te lo sarai sognato, donna! Non può mica rotolare via, un pietrone così. È conficcato per metà nel terreno, come fa a scalzarsi da solo? Non ha mica le gambe come noi.»
«Salite e andate un po’ a vedere con i vostri occhi!» tagliò corto la moglie del vecchio facendo strada. Andò con loro anche l’uomo delle piantine.
Rimasero paralizzati per l’orrore. Era tutto vero: la pietra era divelta dal terreno e rischiava di franare in direzione del villaggio.
«Se rotola giù, la mia casa è la prima» constatò il vecchio atterrito.
«E poi tocca alla mia» gli fece eco Ladua con un tremito nella voce.
«E poi la mia.»
«E poi la mia» calcolavano atterriti gli abitanti del villaggio.
«Bella… e adesso come lo spostiamo un pietrone così?»
La gente del villaggio rabbrividiva per lo spavento, come la pietra fosse già rotolata a valle distruggendo le loro case, anzi, come se l’Aragvi nero in piena si fosse abbattuto sul villaggio, la corrente avesse spazzato via le case e loro fossero rimasti senza un tetto sulla testa; anzi, come se l’Aragvi avesse minacciato di straripare, portandosi via anche gli inquilini[3]. Bisogna fuggire, lasciarsi alle spalle il fiume che minaccia di travolgerli con i suoi flutti lutulenti, ma non c’è via di scampo in vista e il peggio può accadere da un giorno all’altro. La pietra è un macigno colossale, se rotolasse a valle nessun muro e nessun contrafforte potrebbero trattenerla.
«E se le scavassimo la terra sotto? Non riusciremmo a sloggiarla?» propose il vecchio, che aveva avuto un’idea.
«Sotto è tutta roccia, non ci puoi scavare. E anche se potessi, ci vai tu, a spalare terra da lì sotto? Come quella si muove, ci spiaccica tutti.»
«Eh, un sistema per togliere di mezzo la pietra a me sarebbe anche venuto in mente.»
«E come vorresti fare?»
«Piano piano, un pezzettino per volta, ve la frantumo a martellate finché non si riesce a spostare.»
Quel giorno stesso ebbe inizio il suo calvario. Spaccare la roccia si rivelò più difficile del previsto. Al tramonto era riuscito a spiccarne solo un piccolo frammento.
«Ti si dà una mano anche noi» proposero il vecchio e gli altri uomini del villaggio.
«No, è meglio non mettersi in troppi, c’è il rischio che la pietra si muova» rispose l’uomo. «Io da solo, invece, pian pianino…»
Martellava dalla mattina alla sera, le mani gli sanguinavano, eppure lui continuava a picchiare. I pezzi che staccava li deponeva in buon ordine per terra. Martellò per un’intera settimana fino a sbiancare in volto, ma la pietra era ancora lì. La sera scendeva a salutare i suoi alberelli e sussurrava loro:
«Niente paura! Di qui non me ne vado prima di avere fatto piazza pulita di quel maledetto pietrone. È dura, ma che ci volete fare? In un modo o nell’altro lo spaccherò. Non posso mica riprendervi con me, è vergogna. Che cosa direbbero quelli là? Su, tranquilli, io sono un uomo di parola!»
Era una prova di forza tra l’uomo delle piantine e il macigno. La pietra non aveva alcuna intenzione di cedere. Più la scalpellavano, più si induriva.
A poco a poco gli alberelli misero fuori delle gemme. La primavera era alle porte.
L’Aragvi aveva iniziato a gonfiarsi, ad agitarsi, a rumoreggiare.
Un giorno degli sconosciuti si presentarono al villaggio. Avevano la pelle bruna, indossavano panni variopinti e parlavano un georgiano zoppicante.
L’uomo delle piantine non si accorse del loro arrivo. Il bosco aveva di nuovo messo le foglie e il villaggio non si vedeva più. Lui stesso aveva smesso di scendere la sera, perché il tragitto lo affaticava troppo. Si coricava sul posto avvolto nella sua cappa di feltro da pastore e conversava con la pietra.
«Insomma non ti vuoi spezzare, eh? Non vuoi saperne, non vuoi! Così non va, là sotto c’è un villaggio, ci vive della gente, e tu minacci di sbriciolare le loro case. Ci sono anche degli alberelli nuovi, certe pere che neppure te le immagini…mmh! Così non possiamo andare avanti, bisogna che ti spezzi.»
Mentre ragionava così, l’uomo delle piantine cadeva addormentato e giaceva come un corpo inerte fino alle prime luci dell’alba. I ragazzini salivano a portargli da mangiare. Gli dissero anche dell’arrivo dei gitani:
«Dice che sono venuti degli indovini.»
L’uomo delle piantine non fece caso a quelle parole. Non era la prima volta che sentiva parlare di girovaghi in transito.
Con l’arrivo degli zingari la smania di sapere si era impadronita della gente del posto. Avevano fatto tanto d’occhi quando li avevano sentiti citare dettagli precisi sulla vita nel loro villaggio.
«Il cielo viene e ci si avvicina! Il cielo viene e ci rivela i vostri destini» biascicava una vecchia gitana.
Più tardi, quando si furono convinti che la gente credeva ai loro poteri, gli zingari dichiararono:
«Se in famiglia avete oggetti di valore e volete sapere che cosa il destino ha in serbo per voi, portateceli questa notte stessa. Noi li metteremo sotto il cuscino, ci dormiremo sopra e la mattina sapremo tutto delle vostre vite.»
La gente esitava ancora ad affidare loro degli oggetti preziosi. I gitani si erano accampati a una certa distanza dal villaggio e intendevano passare la notte laggiù.
La moglie del vecchio consegnò loro una cintura d’argento. Pidua diede loro un pugnale.
Altri non vollero sbilanciarsi.
Imbruniva. I girovaghi tornarono all’accampamento per dormire, portando con sé gli oggetti di valore.
L’uomo delle piantine rimase sveglio fino a tarda notte per martellare la pietra. Nessuno, quel giorno, si era ricordato di portargli da mangiare. Erano tutti in preda allo stupore per i vaticini dei girovaghi. All’uomo si erano addormentate le mani, le spalle avevano iniziato a cedergli. Quando fu notte, si sfilò la gamba di legno.
La gente del villaggio attese con impazienza lo spuntare del nuovo giorno. L’indomani, di buon mattino, i girovaghi tornarono al villaggio e raccontarono al proprietario di ciascun oggetto la storia del suo passato.
Adesso sì che la gente credeva davvero ai loro poteri.
«Domani vi diremo anche il futuro, ma per farlo è indispensabile che stanotte dormiamo con i vostri beni più preziosi sotto il cuscino, soltanto così potremo venire a sapere tutto per filo e per segno.»
Ormai nessuno dubitava più del potere miracoloso dei gitani, e chi aveva in casa un oggetto prezioso si affrettò a consegnarlo.
I girovaghi tornarono all’accampamento per dormire.
Anche quella notte l’uomo delle piantine rimase a stomaco vuoto. Nessuno si ricordava più della sua esistenza.
La neve sui monti si era sciolta e l’Aragvi era in piena. Correva scuro scuro, terribile a vedersi, agitando i suoi flutti color del catrame.
Annottava.
Dal villaggio si scorgeva chiaramente il falò acceso nello spiazzo dell’accampamento gitano.
Sul far della sera uno dei girovaghi salì al villaggio e disse: «Questa notte voleremo in cielo per domandare a Dio di svelarci il vostro futuro. Prima di volare in cielo, però, getteremo un incantesimo sul vostro fiume, che diventerà il fiume dell’oblio. Se volete che interroghiamo Dio sul vostro futuro, bisogna che dimentichiate il vostro passato, almeno per un giorno. Domattina bevete tutti dell’acqua del fiume e rimanete in silenzio fino a sera, senza pronunciare una parola. La sera ridiscenderemo a terra, vi restituiremo i vostri oggetti di valore e vaticineremo sul vostro avvenire».
Quella notte l’uomo delle piantine stentò a prendere sonno, tanto gli dolevano le giunture. Aveva anche una gran fame, ma si vergognava di rientrare al villaggio per chiedere del cibo.
Alle prime luci dell’alba gli abitanti del villaggio scesero alla riva del fiume per bere delle sue acque. Dei gitani non c’era più traccia.
«Io li ho visti volare su in cielo» si pavoneggiò la moglie del vecchio.
«Li ho visti anch’io» disse Pidua: «Erano tutti avvolti da un alone di fuoco».
Bevvero l’acqua dell’Aragvi e attesero il tramonto senza pronunciare una parola, obbedendo alle raccomandazioni dello zingaro.
Quella notte le ultime forze residue abbandonarono l’uomo delle piantine, stanco di martellare la roccia. A mezzogiorno si accasciò stremato sul pietrone.
La gente del villaggi, intanto, attende il miracolo con gli occhi rivolti verso il cielo. Attendono che un prodigio riporti sulla terra gli zingari saliti in cielo perché possano predire loro il futuro. Nessun osa aprire bocca. Dall’alto del bosco, a malapena udibile, giunge la voce dell’uomo delle piantine:
«Portatemi su da bere, gente, vi prego!» Poi anche quella ammutolisce e il silenzio è rotto soltanto dal rombo dell’Aragvi impetuoso.
Il sole a poco a poco inizia a declinare. La gente del villaggio scruta con occhi febbrili il cielo violetto. Ce ne stanno mettendo di tempo a scendere da lassù, gli zingari miracolosi! L’Aragvi intanto infuria, ha nelle viscere il fremito della primavera, ruggisce agitando la sua criniera di spuma.
L’uomo delle piantine chiama a raccolta le sue ultime forze residue e cinge il macigno con le braccia, avvinghiandosi alla pietra. In tutta la giornata è riuscito a staccarne solo tre piccoli frammenti, e sul far della sera si sente stremato, senza più una goccia di energia in corpo. Anche i suoi alberelli hanno sentito la primavera e sono esplosi in un tripudio di fiori bianchi. «Non è ancora detta l’ultima parola» pensa l’uomo delle piantine. Squadra la pietra di sottecchi e le dice: «Ti faccio a pezzi, ti faccio, a te!».
Il sole si corica all’orizzonte. La gente del villaggio è ancora lì, con gli occhi spalancati contro un cielo che va impallidendo, ma non si vede scendere nessuno.
Si fa notte. Gli alberelli in fiore biancheggiano nel buio. Dall’alto della collina l’uomo degli alberi riesce a intravederli, ma è troppo debole per scendere fino al villaggio.
Gli abitanti del posto hanno passato la notte in bianco, in spasmodica attesa. Come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa.
Quando si fa giorno il giardiniere non riesce più a reggersi in piedi, il suo corpo si è fatto troppo pesante. Appoggia la schiena contro la roccia.
Il cielo sogghigna con aria d’intesa e non rivela alcun miracolo alla gente del villaggio.
Di lì a due giorni caddero tutti dalle nuvole: qualcuno aveva visto passare gli zingari a cavallo a vari chilometri di lì.
Alcuni uomini si gettarono all’inseguimento, ma rincasarono a mani vuote.
«Ma come facevano, allora, a sapere i fatti nostri?» Nessuno ci si raccapezzava.
Finché la moglie del vecchio disse:
«L’uomo delle piantine!»
Soltanto allora la gente del villaggio si ricordò della sua esistenza.
«Possano mozzarmi la testa se non è stato lui a spifferare agli zingari i nostri segreti» concluse la vecchia.
«Come, come? Che cosa centra lui!?»
«C’entra, perché la notte andava dagli zingari a raccontare loro i fatti nostri. Ecco perché era sempre troppo stanco per scendere a dormire al villaggio.»
La gente del posto, amareggiata e sconvolta, voleva ormai una cosa soltanto: alcuni sapevano benissimo che l’uomo non c’entrava nulla, ma ormai erano in preda alla smania di vendetta, e in quei momento l’uomo ha bisogno di agire, di fare qualcosa, qualunque cosa sia.
A nulla servirono le suppliche del malcapitato giardiniere:
«Amici, spiegatemi qual è il problema, che male vi ho fatto, io?»
La folla non volle ascoltare ragioni e mosse in direzione dell’Aragvi impetuoso; strada facendo la gamba di legno dell’uomo si sfilò.
«Piano, mi si è staccata la gamba. Che fate, amici, che fate? Spiegatemi qual è il problema» implorava l’uomo delle piantine rivolto alla gente inferocita, ma i flutti dell’Aragvi inghiottirono le sue urla e per un bel pezzo non si vide più neppure lui. Soltanto una volta la corrente lo riportò a galla, e non saprei dire se lo sventurato uomo delle piantine vedesse o non vedesse con quale sfoggio di fiori bianchi i suoi alberelli salutavano impazienti l’arrivo della primavera nella gola di Gudamaq’ari.
«Visto? Eccolo qui il tuo fiume dell’oblio!» gridarono trionfanti le persone radunate sulle sponde dell’Aragvi, talmente convinti che l’uomo delle piantine fosse in combutta con i gitani da trovare sollievo nell’idea di avergliela fatta pagare.
Il fiume dell’oblio, però, scorreva via con le sue acque lutulente, tanto che nel giro di breve tempo nessuno, nel villaggio, si ricordava più degli zingari e del giardiniere. A quanto pare, però, la natura non dimentica mai nessuno, perché ogni primavera, al ricorrere dei giorni in cui l’uomo delle piantine era stato scaraventato nell’Aragvi in piena, certi peri colossali fiorivano in un’esplosione di bianco. Quel tripudio di candore è il miracolo più grande che alla gente di Gudamaq’ri sia mai stato concesso di ammirare, e l’uomo non sa quale forza comandi ai fiori di sbocciare, o da quali sorgenti sgorghi il fiume dell’oblio, o dove vada a sfociare, o se abbia un senso questo nostro agitarsi sulla terra, dal momento che il fiume si porta via senza fare distinzioni le cose più importanti come le più triviali.
Forse però un senso tutto questo ce l’ha, altrimenti perché i peri fiorirebbero così?
Traduzione dal georgiano di Francesco Peri
© Francesco Peri 2016
[1] Non saprei dire se il racconto figuri anche nella raccolta L’Aragvi nero, trad. di Donata Banzato, Padova, GB, 1990, che non ho ancora avuto modo di sfogliare. Sarebbe curioso se l’unico prosatore georgiano della sua generazione a venire mai pubblicato in Italia fosse stato tradotto due volte, ma le condizioni di ricezione sono talmente mutate che il peccato, se c’è, è veniale (NdT).
[2] Varietà indigena georgiana, molto apprezzata ancora oggi.
[3] L’Aragvi nero è uno degli affluenti dell’Aragvi, uno dei fiumi iconici della Georgia. Scorre nella gola di Gudamaq’ri, sulle pendici del Caucaso, dove sono ambientati molti dei racconti dell’autore.