Galak’t’ion T’abidze (1892-1959), «Neve» (1916) [Work in progress]

[Tentativo impromptu di rifare in italiano l’intraducibile classico del giovane T’abidze, provando a far passare qualcosina dell’originale – uno dei punti di riferimento del simbolismo georgiano. Nell’ordine: i colori, le immagini (tutte conservate pressoché alla lettera), il metro a quattro piedi per verso, lo schema a rime alternate (dove possibile), la fregola delle allitterazioni e degli effetti fonici, l’effetto impressionista di una sintassi dislocata che procede per tocchi e associazioni, il tono malinconico e nobile da bravo poetello crepuscolare. Delle versioni disponibili in Rete (Magarotto, Ch. Michel, P. Urušadze) è la più completa e fedele. Ma finché lo dico io non vale. F.P.]

გალაკტიონ ტაბიძე - ლექსები, პოემები ...

 

Neve

Vergine coltre di neve violetta,
Dolce veduta dal dosso di un ponte:
Mite ai miei umidi e ghiacci pensieri,
Mite all’amore sa farmi, paziente.

L’anima, vedi, si riempie di neve,
Fuggono gli anni, sbiancano i crini.
Della mia patria ho saputo vedere
Solo i deserti, velluti azzurrini.

Contro gennaio non serbo rancore
Mi era destino dibattermi invano
Però continuo a sentire il candore
Della tua cerea, pallida mano.

Cara, le mani… Le vedo sfumare,
Stanche, di neve in un fragile serto.
Spunta, dilegua, poi torna a spiccare
Il tuo foulard in quel bianco deserto…

Quindi mi è dolce la coltre violetta
Lungo le rive, dal ponte, a discesa:
Triste presagio di esili, di erranza,
Come un’aiola di gigli a distesa.

[…]

(L’altra metà segue a breve, musa e prole permettendo)

Ominde K’ordzaia (1912-1986), «Bricchetto»

[Redatti all’insaputa dei parenti in lingua svan, i ricordi di Ominde K’ordzaia, nonno di una delle maggiori scrittrici georgiane viventi, Ana K’ordzaia-Samardašvili, sono stati raccolti e pubblicati dopo la sua morte per iniziativa del Museo statale Giorgi Leonidze, nella traduzione georgiana di un altro discendente, Arsen K’ordzaia. Che qui viene ritradotta in italiano. Sono aneddoti sulla vita, sui costumi e sulle forme di socialità di una delle più suggestive e isolate regioni montane della Georgia, lo Svaneti (o Svanezia), dalla prima epoca sovietica agli anni Sessanta.]

Svaneti Towers: the Crown of the Highest Village in the Europe

In casa tenevamo un bellissimo asino bianco. Non ricordo di preciso come fosse capitato da noi, credo che mio padre lo avesse portato dal basso Svaneti.

            Aveva un pessimo carattere, ombroso. Aggrediva senza alcuna ragione le altre bestie e le mordeva. Neppure i buoi lo tenevano in rispetto. Spianava le orecchie sulla nuca, scopriva i denti e caricava gli animali, a volte addirittura le persone. Con noi della famiglia non era cattivo, però gli estranei qualche volta li mordeva. Pur essendo bene addestrato sulla groppa ci prendeva solo me: dagli altri non si lasciava cavalcare. Ero io che l’inverno gli davo il foraggio, ero io che lo portavo fuori a bere, per cui forse mi vedeva come il capofamiglia.

            Aveva un’andatura straordinaria, impeccabile all’ambio. Sulla spianata del villaggio venivano spesso a sfidarmi per scommessa. Lui si lasciava dietro i cavalli. Quando lo vedevano muoversi facevano tanto d’occhi. Se montavo in groppa e gli lasciavo la briglia sciolta lui partiva sempre all’ambio. Non che in sella mi facesse ballare, anzi, però sentivo gli occhi appannarsi e mi sgorgavano le lacrime, vai a sapere perché. Con i cavalli questo non succede.

            Una domenica ho pensato bene di salire al villaggio di K’ala, dove stava una certa mia zia da parte di padre, sposata. Volevo andare a trovarla. Così ho sellato Bricchetto (l’asino si chiamava così) e gli ho dato dell’avena in un recipiente di legno perché, mi sono detto, così si ricordava chi comanda. Quando ha finito di mangiare gli sono montato in groppa e siamo partiti verso K’ala.

            Sulla via per K’ala, circa a metà strada, nel punto che chiamano Udumbura, ho visto dei ragazzi del villaggio vicino, Ieli. Stavano sistemando la strada carrozzabile. Era domenica, e la domenica, nello Svaneti, è giorno di riposo. Non usa lavorare mai, né in casa, né sui campi, né sui prati. Dice un proverbio che sarebbe comunque lavoro di scarso profitto. Quei ragazzi di Ieli, però, erano di corvée: ce li aveva mandati la comunità.

            Vedendoci arrivare hanno molto elogiato l’andatura del mio somaro e uno di loro, Isaq’ Khvibliani, mi ha chiesto di lasciargli fare un giro.

            Io gli ho risposto: “Isaq’, questo non prende in groppa nessuno, si lascia cavalcare solo da me. Non farmi smontare per niente, tanto in sella non ti ci fa salire.” “Mi venisse un accidente! Se tu ci sei salito e non ti ha buttato giù perché non dovrei riuscire a cavalcarlo anch’io, il tuo asino?” Allora gli ho proposto una scommessa: se riusciva a montare il mio asino e lo portava a fare un giro avrei pagato pegno – dieci bottiglie di acquavite. “Però se invece non ti fa salire e non ti dà retta quelle dieci bottiglie le offri tu.” Ci siamo dati la mano. Zakar Samsiani è venuto a separarci recitando la formula: “Sia come avete detto”.

            Sono smontato, ma tenendo la briglia in pugno. Non avevo alcuna fretta di passarla a Isaq’. Finché non è intervenuto Irod, suo fratello. “Dato che insiste, passagli la briglia.” Al che ho avvertito di nuovo Isaq’: “Guarda che l’asino è scontroso” gli ho detto. “Non ci puoi riuscire, non ti lascia.”

            “Tu eri lì in sella che parevi il prevosto di Šgedi, parevi, e non ti è successo niente. Allora figuriamoci se mi faccio comandare dal tuo asino.”

            Šgedi è un villaggio del basso Svaneti. Una volta, in effetti, ci viveva un prete, un certo Gabiani. Quelli della mia generazione non lo hanno mai visto, ma ne avevamo tutti sentito parlare. Era stato un uomo dalla lingua pronta e tagliente, e a quanto pare girava sempre in groppa a un asino dal manto grigio. Quando mi ha paragonato al pretacchione di Šgedi ci sono rimasto male. L’ho anche dato a vedere, ma la briglia gliel’ho passata. E mi sono spostato con gli altri ragazzi a qualche metro di distanza.

            Isaq’ mi ha strappato di mano le redini, le ha posate sul pomolo della sella, ha infilato un piede in una delle staffe ed è balzato sulla groppa dell’asino. Era un ragazzo snello e agile, per cui l’asino non è sembrato accorgersi di quello che stava succedendo sulla sua schiena. È rimasto come indifferente finché Isaq’ non ha strattonato la briglia, piantandogli i talloni nei fianchi. Allora invece di rialzare la testa l’asino ha spianato le orecchie all’indietro, ha puntato il muso contro il terreno e ha scalciato in aria con le zampe posteriori. Si è alzato talmente che mi è parso di vederlo fare una capriola e atterrare sulla schiena.

            Non appena ha toccato terra ha scalciato di nuovo ed è rimasto lì in verticale sulle zampe anteriori, diritto come una colonna. Neppure un ragno sarebbe riuscito a rimanergli aggrappato alla schiena, figuriamoci un essere umano. Isaq’ è stato sbalzato di sella. È riuscito a sfilare il piede destro dalla staffa destra, ma il sinistro gli è rimasto incastrato. In un batter d’occhio l’asino ha fatto dietro front, ha puntato verso ovest – cioè da dove eravamo venuti – ed è partito al galoppo in quella direzione, imbizzarrito. Isaq’ aveva il piede intrappolato nella staffa, puntava le mani contro il terreno per proteggere il viso, ma c’era poco da fare. Era una strada pietrosa e piena di asperità, rischiava di ridursi la faccia in poltiglia.

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            Per nostra fortuna un altro compagno, Iese Khvibliani, si era addentrato nei cespugli un po’ più in là. Quando ha visto il somaro galoppare ventre a terra trascinandosi dietro Isaq’ è saltato fuori dalla macchia, ha brandito un ramo e si è parato davanti all’animale. È riuscito ad afferrare la briglia con una mano, mentre con l’altra gliele dava sul muso, finché non è riuscito a farlo fermare.

            Siamo accorsi tutti quanti. Isaq’ aveva la faccia e le mani insanguinate, una gamba dei pantaloni era a brandelli. A quanto pare aveva sbattuto contro una pietra o un ceppo. Proprio in quel punto i ragazzi di corvée avevano appeso i loro cappotti, per cui hanno tirato giù un paletot e ci hanno steso sopra Isaq’. Uno dei compagni è sceso al fiume per attingere dell’acqua.

            “Ben ti sta!” gli ha detto Ražden, un altro dei suoi fratelli. “Ominde te lo aveva detto, e anche noi ti avevamo avvertito. Hai voluto fare di testa tua e adesso te la porti a casa.”

            “Che vada in malora Ominde con il suo asino e tutta la baracca” ha borbottato Isaq’.

            Io non ho risposto nulla. Sono ripartito a piedi e dopo un bel pezzo, quando non potevano più vedermi, sono saltato in sella all’asino. A K’ala non mi sono trattenuto più di tanto. Quell’episodio mi pesava sul cuore. Sulla via del ritorno ho visto Isaq’ che lavorava insieme agli altri. Mi ha fatto molto piacere sapere che stava bene. Gli ho persino dato una voce, per scherzo: “E con la scommessa come la mettiamo? A Iese gliene vengono minimo sei, di bottiglie”. “Ti vengano sei accidenti a te e al tuo asino” mi ha riposto Isaq’.

            “Lascialo perdere, non ci sta più, adesso è di cattivo umore” ha interloquito Ražden. A me, naturalmente, non importava un bel nulla delle bottiglie che aveva perso per scommessa. Gliene avevo riparlato soltanto per capire se era offeso con me. Ho sentito che mi rispondeva malvolentieri, non gli andava di parlare. Non era il caso di farla lunga. Per cui non ho più detto nulla.

            Mi sono avviato verso casa. Nel villaggio di Bogreši ho comprato dieci bottiglie di acquavite da una moglie di contrabbandiere. Ho dato una voce ai miei parenti e mi sono fatto regalare del formaggio, del pane e delle verdure. Lì vicino era montato un macchinario da segheria, con dei tronchi e una serie di assi già spianate. Ci ho apparecchiato sopra la tavola.

            C’era un grosso viavai per via della corvée, ma siccome era domenica la gente ciondolava con le mani in mano. Mi fanno: “Cosa combini di bello, Ominde?”. Ho risposto che aspettavo degli ospiti di riguardo e che volevo accoglierli con tutti gli onori. Allora hanno chiamato i bambini e li hanno mandati a casa a prendere chi del formaggio, chi della carne, chi dell’acquavite, chi del pane o dei cipollotti – è venuto fuori un bel banchetto improvvisato.

            Il villaggio di Ieli distava sei o sette chilometri, per cui i lavoratori sarebbero dovuti passare di lì prima del tramonto, e io questo lo sapevo. Anzi, avevo appena finito di apparecchiare quando sono passati di lì. Sono andato loro incontro e li ho invitati a tavola. Loro si sono messi a schiamazzare tutti felici: “Ma che bella sorpresa!”. Ho tenuto d’occhio Isaq’, ero curioso di vedere come si comportava. Anche lui ha preso posto a tavola senza tante cerimonie, soddisfatto. La cosa mi ha fatto piacere, se devo dirla tutta.

            A capotavola mi sono messo io. Nessuno ha chiesto spiegazioni, né io ne ho date. Invitavo a cena dei vicini come loro invitavano me quando mi trovavo a passare per Ieli. Erano tutte persone care con le quali ero in buoni rapporti.

            Quando ha iniziato a fare buio sono andati a prendere un braciere a tre gambe in casa di Besarion Gulbani e altri ce ne hanno portati alcune famiglie di lì. Nei paraggi della segheria c’erano moltissimi trucioli. Hanno raccolto quelli secchi e hanno acceso il fuoco nei tripodi. A quei tempi nello Svaneti la luce elettrica non c’era, eppure siamo riusciti a rischiarare che imbroccavi la cruna di un ago.

            Abbiamo cantato e abbiamo ballato, ragazzi e giovani. C’era un’aria di festa che neanche a prepararsi con un mese di anticipo. Tutto è venuto da sé.

            Adesso ho 72 anni. Iese è un po’ più anziano. Una volta che ci siamo rivisti gli ho ricordato quel giorno.

            “Lo sapevate che avevo giù i pantaloni quando ho fermato l’asino?” ha riso.

            Nessuno di noi se ne era accorto.

           Traduzione di Francesco Peri
© Francesco Peri 2020