[Tentativo impromptu di rifare in italiano l’intraducibile classico del giovane T’abidze, provando a far passare qualcosina dell’originale – uno dei punti di riferimento del simbolismo georgiano. Nell’ordine: i colori, le immagini (tutte conservate pressoché alla lettera), il metro a quattro piedi per verso, lo schema a rime alternate (dove possibile), la fregola delle allitterazioni e degli effetti fonici, l’effetto impressionista di una sintassi dislocata che procede per tocchi e associazioni, il tono malinconico e nobile da bravo poetello crepuscolare. Delle versioni disponibili in Rete (Magarotto, Ch. Michel, P. Urušadze) è la più completa e fedele. Ma finché lo dico io non vale. F.P.]
Neve
Vergine coltre di neve violetta,
Dolce veduta dal dosso di un ponte:
Mite ai miei umidi e ghiacci pensieri,
Mite all’amore sa farmi, paziente.
L’anima, vedi, si riempie di neve,
Fuggono gli anni, sbiancano i crini.
Della mia patria ho saputo vedere
Solo i deserti, velluti azzurrini.
Contro gennaio non serbo rancore
Mi era destino dibattermi invano
Però continuo a sentire il candore
Della tua cerea, pallida mano.
Cara, le mani… Le vedo sfumare,
Stanche, di neve in un fragile serto.
Spunta, dilegua, poi torna a spiccare
Il tuo foulard in quel bianco deserto…
Quindi mi è dolce la coltre violetta
Lungo le rive, dal ponte, a discesa:
Triste presagio di esili, di erranza,
Come un’aiola di gigli a distesa.
[…]
(L’altra metà segue a breve, musa e prole permettendo)