Zosia Brom, «Westplaining. Fanculo ai saputelli delle sinistre occidentali» (4 marzo 2022)


Insieme alla valente collega Luisa Doplicher abbiamo tradotto a quattro mani un importante “coup de gueule” dell’anarchica polacca Zosia Brom, un testo che per molte ragioni mi pare addirittura storico. Non avendo altre piattaforme l’ho parcheggiato per ora sul mio umyle blog, che solitamente non tratta di politica spicciola. Ma appunto questa non è politica spicciola: ne va dell’Est europeo, della sua visione delle cose, del suo passaggio da oggetto a soggetto della propria storia e delle proprie narrazioni. E quindi, come ho spiegato in questi giorni, c’entra eccome con un blog sulla Georgia. Anzi, per il nulla che vale dedico la mia parte di lavoro alle vittime del 9 aprile 1989! [F.P.]

Westplaining.[1] Fanculo ai saputelli delle sinistre occidentali

Zosia Brom, caporedattrice di Freedom News

4.3.2022

(Traduzione di Francesco Peri e Luisa Doplicher)

(originale: https://freedomnews.org.uk/2022/03/04/fuck-leftist-westplaining, pubblicato con la licenza CC BY-NC-SA 4.0)

Qualche giorno fa [ai primi di marzo] un partito della sinistra parlamentare polacca, Razem, di orientamento progressista, ha fatto sapere con un comunicato che troncava ogni rapporto con due organizzazioni europee: Progressive International e DiEM25.[2]

«L’aggressione russa in Ucraina ci ha imposto di fare molti sforzi e, malauguratamente, ci è toccato spiegare una serie di cose alle sinistre occidentali», ha dichiarato Razem sui propri canali social.[3] «Ieri il nostro Consiglio Nazionale di partito ha deciso di uscire da Progressive International e da DiEM25. Perché? Perché né l’uno né l’altro movimento, per ragioni che ci appaiono imperscrutabili, ha provveduto a condannare senza mezzi termini il comportamento aggressivo e imperialista della Federazione Russa, né ha sostenuto in modo inequivocabile la sovranità dell’Ucraina; ha invece dato una lettura pericolosamente relativista del conflitto in corso».

Approvo i toni garbati e le formulazioni scelte con cura ma, visto che qui siamo su Freedom, vorrei esprimere a modo mio il messaggio di Razem: andate a cagare. O, come minimo, chiudete quella cazzo di bocca.

Non ce l’ho con gli anarchici in particolare. Nonostante qualche «esercito nazista ucraino» di troppo, mi sembra che gli anarchici, oggi come ieri, non se la cavino poi troppo male in tema di imperialismo russo. C’è senz’altro del lavoro da fare ma, soprattutto in confronto ad altri settori della sinistra britannica e occidentale in genere, i miei compagni anarchici si portano a casa una bella sufficienza. È vero che non sapete una mazza dell’Europa orientale e che l’unica parola a voi nota in una lingua dell’Est è «kurwa»,[4] ma almeno la maggior parte di voi, al momento, non ha problemi a distinguere i buoni dai cattivi. Mi rivolgo ai veterocomunistoni e ad altri svalvolati. Siete voi che dovete starmi a sentire.

Non c’entra solo l’invasione russa in Ucraina, tuttora in corso: è in gioco un problema di portata più ampia, una tendenza generale della sinistra. Perché gli argomenti che svolgo in questi paragrafi non valgono solo per i discorsi sull’Est europeo e sul cosiddetto mondo postsovietico. Idee molto simili, ed è una vergogna, si sono viste per esempio anche nei ragionamenti sulla guerra in Siria. Interi settori della sinistra britannica, sostenuti dal loro glorioso leader Jeremy Corbyn, non riuscivano a capire chi fosse responsabile della stragrande maggioranza dei crimini di guerra perpetrati in Siria (spoiler: era ovviamente Assad, sostenuto da Putin). All’epoca ho partecipato ad alcune iniziative di solidarietà, ma non credo che spetti a me parlare di quel conflitto. Ci sono persone molto più preparate e, se hanno voglia di occuparsene, posso dire solo: fatevi sotto.[5]

Prima di scrivere questo articolo mi sono consultata con altri compagni dell’Europa orientale. Se lo firmo con il mio nome è solo per non negarmi il piacere di sentirmi accusare da voi di prendere soldi dalla CIA o altra roba così. Accomodatevi, ma sappiate che in Europa orientale molta gente che sta a sinistra la pensa esattamente come me. Ed è un bel pezzo che ne parliamo tra di noi.

Abbiate pazienza se non procedo con ordine. Come quasi tutti gli europei dell’Est ho trascorso l’ultima decina di giorni in una sorta di obnubilamento. Le notizie arrivano a ciclo continuo, non si dorme più e il telefono squilla giorno e notte. Alcuni miei amici, soprattutto quelli dell’Europa centrale e orientale, vogliono parlare dei loro timori, organizzano reti di sostegno, raccolgono fondi, pubblicano guide in varie lingue su «Come fuggire dall’Ucraina», cucinano pasti, trasportano in automobile gente esausta e spaventata fino a un alloggio temporaneo. Molti di loro, giustamente, sono disgustati dalla reazione ben diversa dello stato e della società polacchi (e di altri paesi europei) di fronte a un’altra «crisi dei migranti» in corso appena un po’ più a nord, al confine tra Polonia e Bielorussia,[6] o alle «crisi dei migranti» in altre parti d’Europa. Alcuni rischiano concretamente di trovarsi presto a combattere. Alcuni si preoccupano per le famiglie, che ora si ritrovano in una zona di guerra, altri sono lì anche loro. Sono tutti arrabbiati. Arrabbiati e amareggiati in un modo che difficilmente riuscireste a capire.

Mentre voi vi scambiate le ultimissime dichiarazioni a caldo su Twitter noi ci diamo da fare.

Ogni giorno, quando mi sveglio, il mio primo pensiero è: l’esercito russo sta invadendo l’Ucraina. Dopo avere cincischiato per qualche giorno sembra che ora si diriga proprio su Kiev. Non avrei mai immaginato di scrivere frasi del genere al presente. È un pensiero terrificante. Voi occidentali non potrete mai capire che cosa significa. Da un lato perché la maggior parte di voi ha un’esperienza della storia del tutto diversa dalla nostra: siete nati e cresciuti in un paese dominante. Dall’altro vi pesa troppo il culo ad ascoltare, ed è sempre stato così. Non sia mai che vi scomodiate a riflettere due secondi su un’idea che non rientra nella vostra visione preconcetta del mondo! Diciamo le cose come stanno: sotto sotto pensate quasi tutti che le vostre idee e le vostre categorie siano migliori e più ganze di quelle altrui. L’eccezionalismo occidentale vi rode il cervello come un verme, e voi credete di essere immuni al problema, salvo poi fare i bellimbusti in giro con la vostra ignoranza da yankee o da reali d’Inghilterra. Siete meglio voi, siete sempre più ganzi degli altri. Capite meglio le cose. Siete abituati a parlare mentre gli altri ascoltano in silenzio. E non vi sfiora l’idea di usare Google translate: là fuori non tutti scrivono in inglese, pensate, mamma mia!

Ma siccome mi chiamano anche degli occidentali ce la metto tutta per spiegare l’ABC, la roba con cui sono cresciuta e l’eredità di generazioni segnate dal trauma. O tipo la pronuncia giusta di Charkiv. I peggiori sono quelli che vengono a spiegarmi le cose, quelli che «la colpa del conflitto è della NATO». Se poi sono in vena di magnanimità se ne escono con qualche frase fatta del tipo «nessuno è innocente». Gli ucraini sventolano la loro bandiera, avete visto? FASCISTONI! Guardate, se potessimo fare finta che voi non ci foste, come voi fate sempre con noi, se potessimo ignorare in blocco l’intera Europa occidentale, lo faremmo senza stare a pensarci due volte, ma purtroppo anche internet è controllato in gran parte da voi – o da quelli come voi. Complimenti! E adesso volete fare qualcosa di concreto? Scollegatevi, almeno sui social si respirerebbe un po’.

Lasciate che ve lo dica: è sconcertante quanto poco sapete della Russia e del resto del mondo che un tempo viveva «oltrecortina». Si rimane basiti, e la vostra mancanza di curiosità è vergognosa. A Londra e nel resto del Regno Unito avete compagni provenienti da tutti quei paesi, paesi che sono entrati nell’UE a partire dal 2004. E non vi siete mai sprecati per cercare di capire chi eravamo, che cosa pensavamo. Gli europei dell’Est erano buoni solo per certe cose, soprattutto le faccende manuali, perché alla sinistra faceva comodo tirare fuori lo stereotipo del «manovale polacco» o della «colf lituana» (brava gente semplice che ha voglia di lavorare). Ma avere delle opinioni nostre, quello no; neppure sulla realtà in cui eravamo cresciuti. Non eravamo abbastanza svegli, si vede. Ci avete spianato addosso un cannocchiale orientalista: ci vedete come dei sempliciotti, magari razzisti e primitivi ma onesti. Non fate finta di non capire!

Sono arrivata nel Regno Unito nel 2004, 18 anni fa. Culturalmente è stata un’esperienza stranissima, e lo è ancora; forse un giorno scriverò un’altra filippica sul tema. Uno degli aspetti che mi fanno cadere le braccia è il modo in cui tollerate o addirittura rivendicate immaginari e sentimenti di matrice sovietica (immaginari e sentimenti che peraltro non vi appartengono, vorrei sottolineare). A un certo punto avete fatto di Red London la pagina di sinistra più cliccata su Facebook, e quelli erano degli stalinisti. Ai cortei del Primo maggio vi sta bene che la gente sfili con enormi ritratti di Stalin e di Mao, e nel 2017, vi venisse un accidente, avete addirittura accettato al corteo di Londra la bandiera di un certo Partito Nazionalista Sociale Siriano, che puzzava di fascismo lontano un chilometro,[7] e non ci volevano degli esperti per capirlo.

Per voi sono tutte cose da ridere, immagini buffe da stampare su una tazza[8] o altri gadget. Andate a cagare!

Sono passati decenni dal crollo del comunismo nella sua versione est-europea, sono decenni che la Russia è diventata un regime turbocapitalista di stampo autoritario, e voi state ancora lì a raccontare che l’uomo forte della situazione sarebbe una specie di eroe «antimperialista», benché stia facendo tutto, ma proprio tutto il possibile per realizzare l’obiettivo che ha enunciato: ricostruire l’impero russo, anzi, allargarlo. Nella vostra testa, invece, sono la NATO e le altre organizzazioni occidentali a stare sempre dalla parte sbagliata. Tutti i mali del mondo sono opera loro. Potreste farvi un giretto su Google, ma no, per l’amor del cielo, perché disturbarsi quando uno può farsi imboccare da intellettuali come Noam Chomsky, con il suo vergognoso relativismo.

Nelle settimane che hanno preceduto l’invasione russa sono arrivati a Freedom un bel po’ di articoli di occidentali che cercavano di accreditare quell’ottica. Li ho rifiutati tutti, tutti, perché erano intellettualmente disonesti e francamente anche un po’ manipolatori. Uno di quegli autori, che avevo già pubblicato tempo fa, non l’ha presa bene. «Dove sei stata negli ultimi vent’anni? Che cosa hai fatto?» mi ha domandato. Mettendo anche le mani avanti: «“La polacca” non è una risposta ammissibile». Certo, come no! Perché invece «essere voi» basta e avanza per avere opinioni forti su problemi che riguardano le altre nazioni e sui confini dei paesi altrui. In genere quando i vostri paesi si comportano così va tutto a finire benissimo, no? Si è visto.

Perciò vorrei dirvi alcune cosette sulla gente dell’Europa orientale, la NATO e la Russia.

Noi vediamo la NATO in maniera diversissima dalla vostra. Oserei dire più differenziata. Non è che ne andiamo pazzi, anzi, siamo d’accordo con voi sulle moltissime cose che non vanno. Ma quando voi dite «Fanculo la NATO» o «Stop all’espansione della NATO» il messaggio che mi arriva è che non ve ne frega niente della sicurezza e del benessere dei miei amici, dei miei parenti, dei compagni dell’Est. Mettereste a repentaglio l’incolumità di mia madre solo per fare bella figura, per guadagnare punti politici che poi comunque rimangono lettera morta, carogne che non siete altro!

Quando parlate di «espansione», con tutti i sottintesi del caso, in realtà intendete il fenomeno seguente: l’Europa orientale, dato che nel 1945 altri paesi hanno deciso certe cose al posto suo, ha fatto i salti mortali per non pestare i calli alla Russia, l’abbiamo implorata in ginocchio di lasciarci fare quello che volevamo. Alla fine la Russia ha firmato un accordo con la NATO, il cosiddetto Atto fondatore sulle relazioni, la cooperazione e la sicurezza reciproche. Era il maggio del 1997; la Russia aveva infine accettato quella che voi chiamate «espansione», ma solo a certi patti. E quelle condizioni, in pratica, facevano di noi dei membri di seconda categoria. Però vabbè, quello passava il convento e noi ci siamo adeguati. La Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria sono entrate nella NATO nel 1999 e i paesi baltici nel 2004. E io vorrei che ci rimanessero, almeno per ora. La politica, guardate, non c’entra molto. È istinto di autoconservazione, però figuriamoci se riesco a farvelo capire. Voi state sempre a menarla con l’«espansione della NATO». Perché non parlate un po’ del fatto che i membri fondatori siete voi?

Blaterate sempre di fermare l’«espansione della NATO», ma non si è ancora capito quale sarebbe, secondo voi, un’alternativa concreta. Mi dispiace, non ci siamo proprio! L’unica cosa chiara, per quanto mi riguarda, è che a voi è andata di culo. Che nella vita – pensate un po’ che bello! – non vi è toccato subire i capricci e le aggressioni grandi e piccole di questa forza enorme e imprevedibile che pensa di poter fare come a casa propria ovunque non ci sia la NATO. Per cui rispondetemi: che cosa intendete fare di preciso per garantire la nostra sicurezza? Qual è questa famosa alternativa che andate millantando? Vi è mai venuto in mente di chiedere a noi che cosa ne pensiamo? Oppure, tanto per cambiare, avete deciso che sarete voi e i vostri leader a stabilire le regole del gioco, come avete già fatto tante volte nella vostra storia e con tanti altri paesi che ritenevate inferiori, e che noi dobbiamo solo prendere e portare a casa? Avete già tirato fuori il righello per tracciare linee rette sulla carta geografica? Solo che questa volta è la carta del posto dove sono cresciuta!

Ma non è solo che «il privato è politico», no, c’è dell’altro: la cosa indigeribile è che a farci gli spiegoni da Occidente, a fare westplaining, sono gli stessi che frignano su Twitter per Donald Trump, ma non hanno mai mosso un dito per sloggiare quel buzzurro! Vi credete dei soldati, ma siete dei codardi! E l’unico amor proprio che hanno i codardi è non so che illusione di virtù morale o superiorità. Magari sui social vi segue più gente, ma il prezzo sono vite perdute, scarsa credibilità, confusione politica; così si riproduce l’acquiescenza. Antifascismo è proteggere le persone da chi esercita un potere strutturale. E oggi è Putin a esercitarlo. Se appoggiate la sua egemonia su un impero vasto e sempre più vasto, se a forza di benaltrismo scadete nell’inazione, siete anche voi dalla parte dell’aggressore. Quindi imbracciate le armi, raccogliete fondi, ospitate profughi… ma a questo punto la cosa migliore sarebbe chiudere quella cazzo di bocca. Scollegatevi dai social, andate a farvi un giro, lasciate questa guerra alla gente che sa davvero per che cosa combatte. Voi combattete per i like – è una cosa mortificante. Mortificante per la sinistra in generale e per le generazioni a venire, che cresceranno demoralizzate, invece di sentirsi motivate a lottare per un mondo senza dittatori. Ebbene sì, tra questi ci sono anche alcuni dei vostri leader, per cui occupatevi di buttarli giù. Neppure la gente che mettereste al loro posto ci ispira molta fiducia, comunque. Questo, per dire, è il livello di credibilità a cui siete scaduti. Guardatevi un po’ allo specchio, uccidete lo sbirro imperialista ed eccezionalista che avete in testa. Buona fortuna.

O se proprio non potete fare di meglio, imparate a pronunciare bene i nostri nomi. Eccheccazzo!


[1] Questo termine, che si potrebbe tradurre come «spiegovest», si rifà a «mansplaining», cioè «minchiarimento». [N.d.T.]

[2] Movimento per la democrazia in Europa 2025: https://diem25.org/it/. [N.d.T.]

[3] https://www.facebook.com/partiarazem/posts/493278352164055.

[4] In polacco significa «puttana», ma è un’imprecazione di uso comune in tutta l’Europa centro-orientale. [N.d.T.]

[5] https://freedomnews.org.uk/contribute/.

[6] https://freedomnews.org.uk/2021/09/27/murder-by-negligence-on-eu-border/.

[7] https://en.wikipedia.org/wiki/Syrian_Social_Nationalist_Party.

[8] https://shop.novaramedia.com/products/literally-a-communist-hoops.

Besik’ Kharanauli, «La bambola sciancata» (1972) [3 di 18]

Terza puntata (su 18) del risveglio di Ale, il cittadino sovietico che non ha voglia di andare a lavorare, protagonista di un classico della poesia modernista georgiana. F.P.

III

Che cosa è nostro? Forse quell’istante,
L’istante a mezza via tra sonno e veglia,
Incuneato tra due eventi portentosi,
Che nessuno ha mai cantato o rammentato,
L’istante – che precede il risvegliarsi,
Quando già non stiamo più dormendo.
Prima che cose vicine e concetti lontani,
Prima che il mondo, prima che la vita,
Uno per uno o gruppo a gruppo
Belli ordinati o alla garibaldina
Ci muovano incontro, ci piombino addosso!
Che cosa è nostro? Forse quell’istante
L’istante a mezza via tra sonno e veglia,
Come un eden tra due paesi in guerra.

Ma poi sarà mattina –
Rosa sui flutti del mare!
Scaricati dalla notte,
Il giorno ci prenderà nel palmo,
E saremo un po’ simili alle prede
Che una fiera ha sgraffignato a un’altra.
Poi verrà spianata
La strada che ci passa sopra
E con mille scuse
O senza alcun riguardo
Verrà lei a calpestarci – la vita.
Può capitare che difendano gli orrori
Una loro pseudo-gerarchia
O che d’un tratto, così, fin dall’inizio,
Incomba il Grande Inquisitore.

È assurda,
È assurda questa attesa
Quando le cose sono già in combutta e fanno comunella
E ognuna, una per una, si raggruppa
Mentre io vado e vengo tra di loro
Come la volpe in mezzo alle tagliole
E nessuno riesce ad acchiapparmi.
Poi ecco che riprendo le sortite
Caparbiamente, in modo sempre uguale.

È assurdo,
Cento volte più assurdo,
Che sotto il cielo nulla ci appartenga
Eppure sempre fai la stessa cosa
Provando a starci, a fare comunella,
Ad aggregarti, a farti più vicino,
Mentre ti sfiora l’amara sensazione
Che al mondo nulla rimpiazzi un’altra cosa.
Un gesto che conosce bene
Chi non lo aveva assimilato da bambino, poi ha imparato
Quel gesto di assoluta acquiescenza.

Ricorda che anche il sonno è morte,
Una sua gocciolina, un suo peluzzo.
Giù dal letto, Ale! Cannoneggia, aleksandreggia!
Al tuo risveglio non nitriva un destriero,
Mentre cercavi l’elsa della spada?
Dal dormiveglia emergono dei padiglioni azzurri*
Come l’anima tua forte e valorosa.
Alzati, aitante e ardimentoso,
Con gioia – per vivere di lotta,
Alzati, esci, fagliela vedere!
La brezza ti farà brillare gli occhi
Come braci che la notte hanno covato
Soffiando via la cenere di ieri.

E lui si alzava anche,
Se a letto non si fosse vergognato,
Aleksandre!

…giunto all’epilogo poi Dio ha soggiunto:
Sempre a campare così questi mortali,
Come li avessi fatti non di argilla,
Ma di pietra e di ferro, o – di vento.
Siete fragili, fragili e stentati,
Ricordo ancora con quante cautele
Posavo in terra il prototipo di uomo.
Come il malato che dice: “Fa contraria”
Io mi stupisco e non saprei spiegarmi
Dove prendiate l’energia per superarvi,
Che seme mi è caduto in quella creta,
Per cui ora non vi andate mai a genio!
Passa la voglia di guardare giù dal monte,
Sempre qualcuno per le ripide pendici
Si inerpica strisciando serio serio,
Scorticandosi al passaggio sulle spine,
Lasciando lembi di carne dell’anima.
Volete ascendere, salire fino a me,
Che invidio a voi queste vostre aspirazioni!

Besik’ Kharanauli, «La bambola sciancata» (1972) [2 di 18]

Seconda parte (su 18) di un poema del 1972 su un cittadino sovietico che non ha voglia di alzarsi per andare a lavorare.

II

Si è svegliato, si è svegliato di nuovo,
Né più presto, né più tardi,
E tante volte che è passato maestro.


Ha spalancato gli occhi all’improvviso,
Ha scantonato eroico l’avversario,
Ma che vuoi fare…
Le cose già schierate al gran completo,
Una per una come da copione:
Riposano la moglie e la bambina,
Solo la madre traffica in cucina
Come un sorcio vecchierello che una noce
Fa rotolare dietro la poltrona.
Però su questo non una parola!
Bada bene, Ale, a non tradirti!
Ed è come il devoto che in silenzio
Presta orecchio in chiesa al mattutino,
E più nessuno glielo può levare.
Gli oggetti fanno mille capriole
Nelle pupille dell’uomo al risveglio,
Rane in deliquio alla vista di uno stagno.

Fa sbucare gli occhi come antenne,
Sbircia. Oggi neve o primavera?
Macché, tutto pulsa normalmente,
La bimba addormentata come un sasso
Adagiato sulla sabbia di un fondale.
La moglie, lei, si veste.

Intramontabile toletta della donna,
Antica e sempre uguale come il mondo,
Rimasta grossomodo sempre quella
Anche al tempo alle novità moderne:
Non un celarsi, no –
Una vestizione,
Non un giochetto, no –
Ma una faccenda,
Che ci fa capitolare senza lotta.

Guardate quella posa
Che prende quando tira su le calze.
Ovunque accada di ammirare il sortilegio,
Poco importa se a casa oppure “altrove”,
Siatene fieri, senza vergognarvi,
Perché assistete a un rito senza tempo,
A un gesto antico.

Mangiatelo con gli occhi, il rituale, fissatelo
Come un’immagine che possa poi servire
Da viatico in punto di morte.
Una cosa da portarsi all’altro mondo,
Insieme a un pezzo di cielo, a un sorso d’acqua, alla chioma di un albero
Per ricordare la vita terrena.

Come la brina sui vetri al mattino
È spolverato d’argento il reggiseno
Che la stringe a mo’ di corsetto.
È straordinario! In quella bardatura
Somiglia tanto ai cavallini circensi
Con i loro finimenti di patacca.
Ti sembra di avercene uno davanti.
L’analogia? – O santo cielo,
L’uomo deve partorire da sé
Sua moglie perché somigli a lui
E non a dei vegliardi sconosciuti.

Come se questa mattina non fosse
Sorta con un lavorio di uccelli,
Con lo stridere del camion dello sporco,
E come se non fosse il lunedì
Che viene dopo il fine settimana,
Quando il maschio come noi riposa,
Come se fosse un giovedì, un venerdì,
un giorno in cui – fin dall’alba è già sera,
L’ora in cui sciolgono i buoi,
L’ora in cui si stacca dal turno,
E fuggono i palloni gonfiati…
Eppure, alla faccia, è proprio mattina, è lunedì,
Nonostante le campane, nonostante i cinguettii.

E Ale, Aleksandre, si è svegliato
Come se dopo matura riflessione
Avesse scelto di arrendersi al nemico.
Ha scavalcato la cinta dell’ignoto.
Ma allora perché il cuore è sgomento?
La moglie, la madre, la figlia, ogni cosa,
Tutto quanto pulsa normalmente,
In casa regnano l’ordine e la pace.

Già, ma i sogni?
I sogni non si devono avverare?

Besik’ Kharanauli, «La bambola sciancata» (1972) [1 di 18]

Un torrenziale poema in diciotto parti su un tizio che non vuole alzarsi la mattina per andare a lavorare. La celebrazione di un oblomovismo alla georgiana che nel 1972 irrideva tutte le leggi scritte e non scritte della poesia e dell’antropologia sovietiche, mescolando Rilke, Majakovskij e un po’ di sana presa per il culo in verso libero. Tempo e forze permettendo, un po’ per volta, proverò a rendere integralmente in italiano uno dei testi leggendari del più riverito poeta georgiano vivente.

Besik’ Kharanauli (1939-)
La bambola sciancata (1972)

Indarno scialacquate voi la vita
Indarno voi giacete nella tomba
(Važa-Pšavela)

I

Hai l’odore della notte intera,
Lo porti squadernato sulla lingua,
O mattina.

Di nuovo Ale si sveglia, Aleksandre, di nuovo si sveglia.
Chissà quante volte è capitato! Ma importano a qualcuno,
Valgono a nulla tutti gli altri risvegli?
“Mi sono risvegliato e alla finestra c’è la neve.”
“Mi sono risvegliato e la mamma era venuta.”
Sciocchezze, perché nessun altro risveglio
Potrà mai darci una mano ad aprire
I nostri deboli occhi di quest’oggi,
Né aiutare con la propria esperienza,
Né mettersi lì come un fratello maggiore,
Dare una pacca e dire: “Coraggio!”.
È solo, tutto solo di fronte all’oceano
E, piaccia o meno, gli tocca addentrarsi.

“S’è desto” –
I pennuti accalcati penna a penna
Sono frullati in giro ai quattro venti,
Eppure, miseri, quel guiderdone
Non tocca loro che spettava ai messaggeri,
Casomai passano da canarini.
“Santi numi, chi s’è desto?” –
Come per stare a una piccola bugia
Agli uccelletti domandano colà
Dove al mutare dell’aria di colore
Sembra annunciarsi un ospite straniero.

“S’è desto un uomo!”

“E voi sganciate questa parolona
Coi vostri becchi vergini di sangue
Come se fosse capitato dio sa cosa!
Abbassate un pochino quella luce,
Farà bene al valetudinario.”

E si è svegliato un altro essere umano,
Si è mosso un altro ramo
E lui ha spiccato il volo, il mondo ha un altro figlio,
Che a sera tornerà di nuovo a casa,
Si scrollerà la polvere di dosso.
E intanto ancora vibra il ramo di quel salto.
Segue la notte il profugo in cagnesco –
La trota è sgusciata dalla rete!

Šota Iatašvili (1966-), «Requiem»

Nato a Tbilisi nel 1966, Šota Iatašvili è oggi uno dei poeti georgiani più noti e tradotti, immediatamente riconoscibile dall’uso di un verso libero a cascata che si organizza per riprese, variazioni, echi ed effetti contrappuntistici, talvolta (ma non in questo caso) con esiti umoristici o surreali. Questo Requiem, riproposto di recente dall’autore stesso, risale agli esordi, nello specifico agli anni traumatici della guerra civile (1992-1993), culminata nella secessione de facto dell’Abcasia. Un episodio che nell’esperienza di chi lo ha vissuto non può che situarsi in continuità con una serie di eventi successivi, anche separati da decenni.

Šota Iatašvili (1966-)
Requiem [anni ’90]

Alle vittime civili della battaglia di Gagra[1]

Mi ammazzeranno
Ti ammazzeranno
E allora?
Verranno lo stesso verranno verranno
L’autunno l’inverno l’apocalisse
Il bollettino militare la grandine
Il pullman strapieno di gente …
Verrà verrà tutto quanto
Verrà di sicuro
E ti ammazzeranno
Lo ammazzeranno
E allora?
Tutte le cose che io pensavo mie
Quelle che tu pensavi tue
L’abitino i libri i sogni il bollitore
Hanno ucciso ogni cosa
La fede nuziale
Il 33 giri
Il nostro pappagallo che parlava
E quindi?
Sapevamo che ci avrebbero uccisi l’uno all’altra
Sapevamo che ci avrebbero ammazzato
L’abete natalizio il fondo del pane croccante ogni cosa
Eppure verrà senza vergogna il sole
Verranno verranno il sole la luna la pioggia la lettera il neonato
Verrà piangendo verrà strillando ma verrà
E allora?
Mi hanno ucciso
Ti hanno uccisa
Lo hanno ucciso
La casa l’hanno uccisa
Il giardino
Il ciliegio in quel giardino
L’arancio in quel giardino
Il nostro sedere insieme in quel giardino
E allora?
Ripeteranno ancora e di nuovo
Il soldato il tenente il colonnello il presidente
Verranno comunque
La primavera l’estate il papavero il mare
I corpi avvinti dell’uomo e della donna
Verranno lo stesso
Il pane imburrato il bimbo paffuto i cartoni alla tele
Verranno lo stesso
Verranno senz’altro
Verrà verrà tutto quanto
Ma non l’abitino i libri i sogni il bollitore
Che ci hanno ammazzato
Ma non tu e io
Che hanno ucciso l’uno all’altra
Ma non il sole la luna la pioggia
Che ci hanno ucciso così senza vergogna
Sapevamo che ce li avrebbero uccisi
Che ci avrebbero ucciso ogni cosa e
Infatti così è stato.
E allora?
Ripeteranno ancora e di nuovo
La radio la poesia la terra il mondo
Ancora e di nuovo ripetiamo noi
Ancora e di nuovo in un sussurro
Mi ammazzeranno
Ti ammazzeranno
Lo ammazzeranno
Ammazzeranno tutto
Ammazzeranno ogni cosa
E allora?
E quindi?
E quindi?
E poi?


[1] Città dell’Abcasia dove tra il 1 e il 6 ottobre 1992 si è consumato un sanguinoso episodio di pulizia etnica. (Il georgiano è molto specifico su certi nessi logici, come gli aspetti benefattivi/malefattivi, e molto vago su altri, come il genere grammaticale e l’oggetto dei verbi alla terza persona, risorse che il poeta sfrutta, ma rispetto alle quali il traduttore deve sbilanciarsi. Di qui l’idea, implicita ma non dimostrabile, che a parlare sia una coppia.)

Nodar Dumbadze (1928-1984) – «Il cane» [1974]

Questa storia inizia nel 1941 e si conclude a distanza di due anni. Si era in guerra da un paio di mesi quando il fiato glaciale della mobilitazione è arrivato a lambire anche il nostro villaggio. Eppure il contadino della Guria, avvezzo a campare da signore, non ha capito subito che orrenda catastrofe si era abbattuta sul nostro paese, e lì per lì ha continuato a fare la bella vita. Per cui già nel mese di agosto più di un granaio, più di una giara, più di una cassetta dei risparmi si erano ritrovati vuoti. Quantomeno in casa nostra è andata così.

            Mio nonno Sp’iridon, reso impotente dalla gotta, sedeva giorno e notte davanti al camino per via del gelo che sentiva nelle ossa, per cui tutto il peso delle varie faccende ricadeva sulle mie spalle. Per tacere del resto, andavo e venivo tutto il giorno dal bosco per fare legna e riportare a casa dei rametti secchi, badando a tenere sempre acceso il focolare per il nonno, che appunto aveva il gelo nelle ossa.

            Al 25 agosto 1941 non rimaneva più una briciola. Così il nonno mi ha fatto tirare giù dal ripiano più alto una damigiana da dieci litri tappata con foglie di pannocchia, piena della grappa digestiva che prendeva per aiutare il fegato, e mi ha detto: «Questa qui la metti nella gerla, vai al mercato di Čokhat’auri e la baratti contro un pud di grano. Se qualcuno si azzarda a offrirti meno di sedici chili, tu gliela dai in testa e vieni via. Soltanto io so quanto vale questa… è grappa alla mora, distillata a ottanta gradi.» Ha seguito la damigiana con uno sguardo triste, ha cacciato un sospiro e mi ha fatto segno con la mano: «Vai, vai».

            Altro che picchiarla in testa alla gente! Al mercato ho trovato un tale estimatore che mi ha vuotato nel sacco senza fare storie un pud di chicchi gialli grossi come un’unghia, e per mancia mi ha infilato in tasca tre monete da dieci rubli, dandomi un buffetto sulla guancia e facendomi promettere di tornare a trovarlo tra una settimana, stesso posto.

            Dirimpetto alla piazza del mercato c’era una tavola calda, per cui ho socchiuso la porta e con la gerla ancora in spalla mi sono avvicinato al bancone.

            «Polpette ce ne ha?» ho domandato all’oste.

            «Soldi ce ne hai?» mi ha domandato quello.

            «E come no!»

            «Quanti?»

            «Trenta rubli.»

            «Fa’ vedere.»

            Glieli ho fatti vedere.

            «Siedi, dai, ti porto in tavola io.»

            «Tre porzioni» ho ordinato posando a terra la mia gerla.

            «Giovane… non sarai mica un po’ ritardato?» mi ha domandato l’oste senza tanti preamboli.

            «Ho fame!» ho ribattuto io.

            «Cosa ci vuoi di contorno? Patate o pastasciutta?»

            «Due con la pasta e una con le patate, le tre porzioni servite a parte.»

            «E quante limonate vuoi?»

            «Tre» ho riposto io, procedendo a slacciarmi la cintura.

            Da come mi ha fissato avresti detto che voleva domandarmelo di nuovo, se ero nato un po’ scemo di mio, ma poi ci ha ripensato. Quando mi ha portato da mangiare mi ha chiesto in tono carezzevole: «E quei trenta rubli di prima che fine hanno fatto?»

            «Ce li ho qui!» ho risposto tutto baldanzoso, cavando di tasca le tre monete color rame. L’oste ha preso i soldi e li ha esaminati alla luce. Sotto il grembiulone sudicio portava un altro grembiule ancora più lercio. Si è infilato le monete nella tasca sul davanti di quello, mi ha detto: «Siamo a posto», ha sorriso ed è partito per i fatti suoi.

            Un cane basso, lungo e nero, tutto emaciato, si è intrufolato alla chetichella. Si è messo a passeggiarmi davanti, andando su e giù, guardandomi un po’ di sottecchi. Poi, siccome non lo cacciavo via, si è fatto vicino. Gli ho gettato un po’ di vermicelli, perché una polpetta onestamente non potevo. Lui ha acchiappato il cibo al volo e lo ha inghiottito all’istante. Allora ha preso coraggio. Mi si è seduto di fronte, scodinzolando e sbavando dalle fauci. Gli ho lanciato un altro po’ di pasta e lui di nuovo l’ha acchiappata al volo. Poi, quando ho smesso di fargli caso, ha latrato per attirare la mia attenzione: «Guarda che ci sono ancora!».

            «Fuori di qui, bestiaccia, ti andasse a fuoco la pelliccia!» ha sbraitato l’oste, montando sulle furie.

            «Come si chiama?» gli ho domandato.

            «E che ne so… lui e il suo canchero di padrone!»

            «E il padrone chi è?»

            «Boh, gli è morto. Fuori, cane, fuori!» tuonava l’oste minacciandolo con un coltellaccio.

            Il cane è sgattaiolato fuori con la coda tra le zampe.

            Io ho finito di pranzare, ho preso di nuovo la gerla in spalla e mi sono avviato verso l’uscita. In effetti tre porzioni erano un po’ troppo. Facevo fatica a respirare.

            «Mi viene nulla di resto?» ho domandato tanto per dire.

            «Ma tu mi vuoi vedere in mezzo a una strada!» ha ribattuto l’oste.

            «Proprio niente niente?» – io ci ho provato.

            «Poveretto chi ti dà da mangiare!»

            Aveva pena per il mio nonno. Tornato all’aperto ho visto con la coda dell’occhio quel cane di prima che si intrufolava di nuovo nella tavola calda. Mi sono incamminato verso il villaggio, ma avevo mosso sì e no dieci passi quando mi è giunto all’orecchio il guaito straziante di un cane, un suono che mai potrei descrivere a parole. Di punto in bianco, come impazzito, il cane mi è sfrecciato accanto con un sibilo, si è scaraventato nell’acqua sotto il ponte, è risalito a riva e ha iniziato a voltolarsi nella ghiaia, mandando degli uggiolii pietosi. Mi sono guardato alle spalle e sull’ingresso della tavola calda, il naso come un otre, c’era l’oste che brandiva un tegame fumante.

            «Gli hai buttato dell’acqua bollente?» ho domandato.

            «No, gli ho riscaldato le zampine» ha sogghignato l’oste.

            «Ma sei proprio una faccia da stronzo!» gli ho detto io.

            L’oste ci è rimasto di stucco. Poi ha posato il tegame, si è rimboccato la manica destra e mi è venuto sotto, la faccia blu per la rabbia.

            «Adesso te lo faccio vedere io chi è stronzo!»

            Ho posato a terra la gerla, mi sono chinato e ho raccolto una grossa pietra dal ciglio della strada. L’oste non si è più mosso, pareva imbambolato. Per un po’ è rimasto lì come una bella statuina, poi, quando gli è passata la congestione, ha scrollato la testa con aria sconsolata ed è tornato dentro.

*

Accucciato sotto il ponte, il cane si copriva il muso ustionato con le zampe anteriori. Di quando in quando dava in singhiozzi e mandava uggiolii pieni di amarezza, il pelo tutto fradicio. Ho cercato di avvicinarlo, ma lui mi ha ringhiato. Allora l’ho osservato meglio. Era scottata anche la zampa destra.

            «Lasciami avvicinare» gli ho sussurrato. «Che cosa mi hanno fatto!?» guaiolava, come volesse sfogarsi con me. Mi sono accucciato lì di fronte. Lui si è irrigidito, in attesa. Dall’occhio sinistro, rimasto sano, gli colava un torrente di lacrime. «E ora che ci faccio con questo?» ho pensato. Poi mi sono sfilato la camicia, l’ho strappata in due e ho immerso la stoffa nell’acqua. Quando ho iniziato a bendargli l’occhio lui si è messo a lacrimare di nuovo. Mentre gli fasciavo la zampa ha iniziato a leccarmi la mano. Allora non ce l’ho più fatta: mi sono seduto sulla ghiaia e sono scoppiato a piangere anch’io. Il cane, essendo un cane, non ci capiva più nulla: che cosa aveva da piangere quel tizio? Si è trascinato verso di me e mi ha posato il muso in grembo.

            Ricordo che avevo quattordici anni quando la figlia di Gervasi Jabua, Tina, si è sposata con uno di Nabeghlavi, Arsena Siamašvili. È stata la prima volta che ho pregato in cuor mio: Signore, fammi avere subito vent’anni, lascialo sposare a me quell’angelo di donna… E ora pregavo per la seconda volta: Signore, fammi avere l’età di quell’oste e poi ammazzami pure. E mai più in vita mia ho desiderato che un voto si avverasse come quel giorno sotto quel ponticello.

*

«E questo che roba sarebbe, bimbo?» mi ha domandato il nonno, preso alla sprovvista, quando ho tirato fuori dalla gerla un cane sbollentato e gliel’ho posato di fronte.

            «Un cane!» ho risposto.

            «Bel cane davvero…» ha commentato il nonno sputando nelle braci del camino.

            «L’oste gli ha gettato dell’acqua bollente.»

            «Si vede che mangiava troppo» ha ribattuto il nonno, dando la colpa al cane.

            «Ma se è tutto pelle e ossa!» l’ho difeso io.

            «Leva un po’ quei cenci» mi ha ordinato il nonno.

            Ho disfatto le bende. Il nonno ha esaminato le parti ustionate.

            «Ha scelto un bel momento per sbollentare i cani, quel farabutto. In pieno agosto! Con questo caldo non si rimargina nulla… Vai a prendere del burro chiarificato e spalmaglielo dove ha male, dovrebbe dargli un po’ di sollievo. La zampa se le lecca da solo e guarisce, ma per l’occhio gli serve aiuto.»

            Non me lo sono fatto dire due volte. E già la mattina seguente nel nostro cortile abbaiava un cane, un cane vero. Il latrato era ancora debole e malcerto, ma era indubbiamente il latrato di un cane.

*

Quanti nomi abbiamo fatto passare! Abbiamo provato a chiamarlo Jek’a, Neve, Jul’bars, come il cane di quel film… ora così, ora cosà, ma non ha risposto neppure una volta. Non essendo riusciti a imbroccare il nome vero, ci siamo ridotti a digli «Cane». Nel giro di un mese la zampa e l’occhio erano guariti. Nei punti ustionati gli era rispuntato un pelo nuovo, tutto candido. E gli donava talmente che in tutto il villaggio non c’era un altro cane così bello.

            Come cane, a parte quello, non brillava per talenti speciali. Va bene, evitava di sbranare le donne e i bambini e sapeva riconoscere tra mille la nostra gallina ovaiola, la sola che avessimo, quella dal collo a penne spioventi, ma altrimenti che razza di cane sarebbe stato? In fatto di esseri umani, in compenso, per lui esistevamo solo il nonno e io. Forse quella misantropia gli era rimasta dal giorno in cui l’oste gli aveva rovesciato addosso dell’acqua bollente.

            Quante ne abbiamo sentite dai vicini!

            «Sp’iridon, avremmo anche piacere a passare da te, ma quel bastardo che ti sei messo in casa non ci fa entrare neppure dal cancello. Perfino i fringuelli hanno paura di posarsi sul palo della tua staccionata. Legalo o fallo sparire.»

            Il nonno gli si era talmente affezionato che piuttosto avrebbe cacciato di casa me. A volte me lo dava come scorta quando uscivo nel bosco a fare legna, oppure se andavo a macinare al mulino, specialmente la sera, ma per il resto se ne stava sbracato ai piedi del nonno in attesa dei suoi ordini. Aveva occhi color miele, malinconici e intelligenti. Era flemmatico nei gesti, ma bastava che una mela o una pera cadessero a terra che lui, rapido come il lampo, schizzava via per non farsi fregate dal maiale, si precipitava ai piedi del tronco, ghermiva il frutto e ritornava dal nonno. Il nonno, per parte sua, gli agguantava la collottola e strattonava gentilmente la pelliccia per fargli i complimenti. Poi pelava il frutto, la polpa se la mangiava lui e le bucce le gettava al cane. E quello era tutto felice di accettare le bucce dalla mano del nonno, come se a terra nel frutteto non ci fossero state mele e pere in quantità. Era bravissimo anche ad ascoltare. Soltanto lui riusciva a sorbirsi senza battere ciglio una delle storie che il nonno aveva già raccontato cento volte. E più la storia era lunga, più attentamente il cane ascoltava. Anzi, gli brillavano gli occhi, quasi lo stesse supplicando: «Mi raccomando, per filo e per segno, guai a tralasciare un dettaglio!».

            Una volta ho sorpreso un discorso del genere:

            «È una guerra della malora, Cane, che a un bravo cane come te gli tocca mangiare le bucce» commentava il nonno scrollando tristemente il capo. E l’altro muoveva la testa su e giù, come per dargli ragione: «Dici bene! Parole sante!».

            «Te lo sei dimenticato, eh, che sapore ha la carne?» gli domandava il nonno.

            «E chi lo sa più» annuiva il cane.

            «Ma tu non preoccuparti, sai» lo rincuorava il nonno: «Non avere paura. Un giorno di questi salterà fuori Arsena, il babbo di Gogit’a. Penserà a tutto lui, si prenderà cura di noi… che te ne pare?». Il cane non lo aveva mai neppure conosciuto, mio padre Arsena, eppure guardava il nonno e faceva «Sì, sì» con la testa. «Non può durare, no, vedrai che finisce questa guerra sciupafamiglie…» continuava il nonno. «Forse mi passeranno anche questi acciacchi, non si può mica patire per sempre. E allora, sissignore, io prendo su, vado a Mosca, mi butto in ginocchio davanti a Stalin e allora vuoi che non me lo regali, un chilo della carne di Hitler? Per me e per te, Cane. Quel giorno ci strafoghiamo con la ciccia di Hitler! Prendiamo la ciucca con il suo sangue! Tu e io, cane, che dici? Però chissà quando capita, chissà…» si impensieriva il nonno, e il cane appuntava uno sguardo carico di interrogativi nei suoi occhi umidi di lacrime.

            I due compari se ne stavano così, a prendere il sole sulla balconata, ragionando: punto primo, finisce la guerra e torna a casa mio figlio…. punto secondo, la carne…

            Per il resto era un cane normale. La notte dormiva fuori, come tutti gli altri cani. Rispondeva con i suoi latrati al canto del gallo, al miagolio del gatto, al richiamo dello sciacallo, secondo il costume dei suoi simili, e ululava tetramente insieme a tutti gli altri cani del villaggio quando in una casa si piangeva un caduto. Anche lui ringhiava alla luna piena quando spuntava dalla Gola dell’Orso come un gigantesco occhio sbarrato. Nella stagione degli amori lazzaronava chissà dove. E come tutti i cani degni di questo nome, almeno dalle nostre parti, alzava la zampetta per annaffiare il sedano novello che verdeggiava negli orti. Così, uno dopo l’altro, passavano i giorni. Il nonno e io tiravamo a campare come campano gli esseri umani in tempo di guerra. Il cane campava come campano i cani.

*

La notte del 22 agosto 1943 si è scatenata una tremenda cagnara. Nessuno ci ha badato più di tanto, perché era tempo di calore.

            La mattina Aslana Tavberidze ha trovato un cane sbranato nella fonte dei Č’anišvili. Niente di strano neppure in quel caso, perché nella stagione degli amori finisce sempre che ci scappa il morto, per cui abbiamo scavato una buca lì vicino, abbiamo seppellito il cane malconcio e siamo ripartiti per i fatti nostri.

            Verso mezzogiorno è arrivato al villaggio un tizio di fuori che cercava un cane. Gli hanno indicato la casa di Aslana. Li ho sentiti dalla staccionata che dicevano così:

            «Piacere! K’irile Mamaladze di Khevi» si presentava il forestiero.

            «Qual buon vento la porta, signor K’irile?» gli ha domandato Aslana.

            «Cerco il mio cane. Mi hanno detto che uno dei vostri ha trovato un cane sbranato e lo ha seppellito.»

            «Sì, lo abbiamo seppellito io e quel ragazzo lì. Perché, non dovevamo?»

            «Ma si figuri, anzi, mille grazie per il disturbo. Però avrei bisogno di sapere dov’è.»

            Lo abbiamo accompagnato e gli abbiamo fatto vedere il punto. Lui ha riaperto la buca, ha tirato fuori il cane morto ed è rimasto a fissarlo.

            «Sì, è proprio il mio» ha confermato poi, in tono convinto.

            «E adesso? Organizziamo la traslazione della salma?» ha sogghignato Aslana.

            «Sì, un bel cavolo» ha risposto quell’altro a denti stretti: «Ieri a momenti mi sbranava la creatura, mi sbranava, questo figlio di una cagna. Alla stazione Pasteur mi hanno detto di portargli la testa per analizzare il cervello e vedere se magari è il caso di fare l’antirabbica al bambino. Io non dico per me, caro signor Aslana, ma la creatura le regge, secondo lei, quaranta punture nella pancia? Già mi è nato prematuro ed è giallo come un ranuncolo…» ha sospirato K’irile Mamaladze, tirando fuori un’accetta dal sacco. Io ho girato i tacchi e mi sono incamminato verso casa senza neppure aspettare Aslana.

            Ho raccontato tutto al nonno.

            «Ahia, qui si mette male» ha commentato lui dopo avere riflettuto, gettando un’occhiata al cane, beatamente allungato ai suoi piedi.

            Sul fare della sera è venuto al cancello Badria, quello del tabacco, e ha chiesto in prestito il fucile al nonno.

            «E che te ne fai del fucile, Badria?» ha domandato il nonno.

            «Devo abbattere il mio cane, Sp’iridon!»

            «Cosa ti ha fatto?»

            «Come, non lo sai che l’altra notte è venuto giù da Khevi un cane con la rabbia e l’ha attaccata a tutti i cani del villaggio?» ha domandato Badria. «Non c’eri lì anche tu, giovane? Quando quel tizio ha raccontato che il cane gli aveva morsicato la creatura?» ha aggiunto rivolgendosi a me.

            «Quell’uomo non ha mai detto che il suo cane aveva la rabbia!» ho bofonchiato io.

            «Sveglia, giovane! Quando mai si è visto un cane con la testa a posto che morde i suoi padroni? Un neonato, poi…» ha insistito Badria.

            Non ho trovato nulla da rispondergli.

           «Per una cosa del genere il fucile non te lo presto, Badria!» ha tagliato corto il nonno, a muso duro.

            «E io il cane come lo ammazzo?»

            «Con il palo della staccionata.»

            «Con il palo… non sono mica un mostro!» si è risentito Badria.

            «Io però il fucile non te lo do!» ha insistito il nonno. Badria ha capito che non era giornata.

            «Questa notte lo tieni chiuso nella stalla!» mi ha detto il nonno, posando la mano sulla testa del cane.

*

Il primo colpo è venuto dal cortile di Aslana Tavberidze. Il guaito di un cane ha lacerato il cielo.

            «Che giorno è oggi, bimbo?» mi ha domandato il nonno.

            «Il ventitré agosto» ho risposto io.

            «È iniziata la notte di San Bartolomeo!» ha commentato il nonno chinando la testa.

            Un secondo sparo ha fatto eco al primo, poi un terzo, poi un quarto e così via… Il rombo dei fucili rotolavacome un tuono di cortile in cortile. Ululati, gemiti, uggiolii, bambini in lacrime, bestiame che muggiva, tutto mescolato in un caos indistinto. Un botto nel cortile di Aslana, poi un altro sparo nel cortile della casa vicina, quella di Mak’aria, l’urlo di un cane, un guaiolare sommesso. Il mondo era finito sottosopra.

            «Con l’archibugio gli spara, brutto disgraziato!» ha commentato il nonno turandosi le orecchie: «Quante ne dovrà patire quella povera bestia mentre lui si arrabatta per ricaricare». Un’ora intera è durato quell’inenarrabile massacro canino. Per un’ora intera il cielo e la terra hanno crepitato tutto intorno. Per un’ora intera, fuori di sé per il terrore, il nostro Cane ha cercato di sfondare la porta della stalla, sprangata dall’esterno, ringhiando e digrignando le zanne. Poi, a poco a poco, il baccano si è acquietato. Finché da qualche parte non si è udito l’ultimo sparo.

            «Ehee-heheee» vocalizzava qualcuno con voce stentorea, a mo’ di bordone, riempiendo l’intero villaggio.

            «È finita. Ecco come ti ripagano i peccatori che hai creato, Signore» ha sentenziato il nonno sollevando le braccia al cielo, e sul villaggio è calato il silenzio.

*

Il gallo ha cantato, la mucca ha muggito, è suonata la campanella della scuola, il sole è sbucato dal K’onckhoula, la capra ha fatto baah, il capretto ha fatto beeh, il gatto ha miagolato, la gallina ha chiocciato, eppure la mattina non sembrava una mattina. Nel villaggio mancava qualcosa, qualcosa di impalpabile ma enorme, di familiare, caro, intimo. Quando ho visto passare Aslana con la roncola in spalla lungo il sentiero tra gli steccati senza un cane alle calcagna ho capito: quel non so che di gigantesco, di inseparabile dall’essenza del villaggio, come dire il suo sangue e la sua carne, era il cane, il bastardo communis. Nessun cane, nel nostro villaggio, ha salutato l’arrivo del mese di settembre 1943.

            Quella mattina il nostro Cane non è voluto uscire dalla stalla, non ha abbaiato una sola volta, non ha toccato cibo. Di ritorno da scuola l’ho trovato lì, buttato per terra ai piedi del nonno, gli occhi chiusi, come un cadavere. I fianchi si alzavano e abbassavano impercettibilmente, ma a parte quello non dava altri segni di vita.

«Che gli prende?» ho domandato al nonno.

«Sta digerendo la nottata. Ma tu non preoccuparti» ha aggiunto poi, accarezzandogli affettuosamente la testa: «È un cane, gli passerà di mente». Il cane non ha mosso un muscolo.

            Sul far della sera quello del tabacco, Badria, si è presentato di nuovo al nostro cancello. Da come parlava era sbronzo.

            «Buonasera, Sp’iridon!» ha salutato.

            «Buone cose a te, Badria» gli ha risposto il nonno. Che però, per qualche ragione, non lo ha invitato a entrare in cortile.

            «Ascolta, Sp’iridon…» ha iniziato Badria dopo qualche esitazione. «La gente mormora. “Ieri sera non si è sentito sparare nel cortile di Sp’iridon” dicono».

            «E perché avrei dovuto sparare, Badria? Forse nel mio cortile era la notte di capodanno? O è finita la guerra e il mio Arsena è ritornato dal fronte?» gli ha domandato il nonno.

            «Sp’iridon… non farti nemico il villaggio per amore di un cane. Ammazzalo e basta. Il tuo è meno bastardo dei nostri, per caso? Vuoi fare la figura del sentimentale?!»

            «Non posso, Badria» ha risposto il nonno. «Se lo ammazzo, chi ulula nel mio cortile quando muoio?»

            «Sp’iridon… se quel cane ha preso la rabbia e morde una delle mie creature, ti cospargo la casa di nafta e la incenerisco con te dentro!» ha tagliato corto Badria per poi allontanarsi con passo titubante.

            Iniziava già a fare buio, eppure ho visto il nonno impallidire.

            «Badria!» lo ha richiamato all’improvviso. Badria ha fatto dietro front. «Bada a te, farabutto! Metti un po’ di senno e non costringermi a peccare. Che non abbia a intiepidire queste ossa infreddolite con le braci della tua bicocca dal tetto di stoppie…»

            Non so che cos’abbia pensato in quel momento Badria, immobile nelle tenebre, però sapevo che il nonno non diceva mai per dire, per cui, se fossi stato in lui, avrei dormito male.

            Quella notte, in fondo al nostro giardino, sono echeggiati due spari in rapida successione, il secondo accompagnato dal ringhioso scainare di un cane. Inorridito, sono saltato giù dal letto, ho brandito il fucile e mi sono precipitato in quel punto. Qualcuno sgusciava tra le piante di piselli, defilandosi verso valle. Il nostro cane era riverso ai piedi della staccionata e uggiolava sottovoce. L’ho preso tra le braccia, l’ho sollevato e l’ho portato in casa. Il nonno ha acceso una lampada a petrolio e si è seduto a gambe incrociate sulle tavole del pavimento, di fronte al camino. Ha esaminato il punto in cui erano entrati i pallini. Lo avevano preso alla zampa posteriore. Prima ha tamponato la ferita con dell’alcol, poi ha applicato un impacco di foglie di tabacco e lo ha fasciato stretto stretto.

            «Non è nulla, non gli ha neppure sfiorato l’osso!» ha commentato il nonno. Poi ha guardato il cane come se avesse voluto domandargli qualcosa. E il cane guardava il nonno come se avesse voluto raccontargli qualcosa. Sono rimasti a fissarsi così per un bel pezzo.

            «Chi è stato?» mi ha domandato a bruciapelo il nonno.

            «Non lo so» ho risposto io.

            «Lui lo sa, hai voglia se lo sa, ma provaci tu a farlo parlare!» disse il nonno asciugando le lacrime del cane.

*

La mattina il nonno si è fatto accompagnare fuori, sulla balconata. Il cane si è tirato su, lo ha seguito zoppicando e si è allungato ai suoi piedi.

            La nostra casa era costruita su un’altura, e il nonno ora si guardava intorno come se quello non fosse stato il villaggio in cui era cresciuto, ma un posto dove era solo di passaggio e che vedeva per la prima volta. Poi si è rivolto a me e con voce rotta e mi ha detto: «Non hanno torto, ragazzo mio, non ci si può inimicare un villaggio per amore di un cane. Alzati, prendi il fucile, mettigli una corda al collo e… però io non voglio sapere niente, non voglio vedere niente. Vai sull’altra riva del fiume.»

            «E poi cosa faccio quando l’ho portato di là?!» ho domandato io, sentendo il mento che mi tremava e il labbro inferiore che non mi obbediva più.

            «Quello che hanno fatto tutti gli altri, bimbo» ha risposto evitando il mio sguardo.

            Mi sono alzato, ho messo il fucile a tracolla, gli ho legato una corda a mo’ di guinzaglio e ho dato uno strattone. Non ne ha voluto sapere.

            «Vieni via, Cane!» gli ho detto, strattonando di nuovo. Il cane ha strascicato le zampe, guardando il nonno con due occhi da condannato a morte.

            «Vai con lui, Cane, vai!» gli ha ordinato il nonno coprendosi con la mano gli occhi pieni di lacrime. Allora il cane ha accettato di seguirmi.

            Abbiamo attraversato il villaggio, poi abbiamo lasciato la via maestra e siamo scesi per la costa scistosa lungo il sentiero che portava al fiume. Il cane mi seguiva incespicando, e per tutto quel tempo ha tenuto gli occhi bassi, senza guardarmi una sola volta. Giunti alla riva gli ho sciolto il guinzaglio di corda e mi sono seduto su un pietrone. Sono rimasto lì per un bel pezzo. Il cuore mi batteva all’impazzata. Poi ha smesso di picchiare. Mi sono tolto il fucile di spalla, l’ho aperto, ho sfilato le due cartucce e le ho gettate in acqua. Allora, come se mi fossi scrollato di dosso un macigno tremendo, ho raddrizzato le spalle e ho ripreso a respirare normalmente. Il cane mi si è fatto vicino, tutto timido, e mi ha leccato la mano. Poi, di botto, è balzato via e si è gettato nel fiume. Ha sollevato onde, ha mandato schizzi dappertutto, ha fatto ribollire l’acqua della riva, poi è riemerso, è saltato fuori dall’altra parte e si è lasciato ricadere sulla ghiaia, esanime. Ho visto il sangue affiorare sul bianco della garza dalla ferita riaperta, ho visto una lacrima colare dai suoi occhi intelligenti, eppure, potrei giurarlo sulla Croce, in quel momento il cane sorrideva.

            «Adesso vai, Cane, pussa via. Non andartene a zonzo per villaggi, ma risali il vallone lungo il K’alaši. Non stai bene, per cui guai a lasciarti sorprendere per strada: non ringhiare a nessuno, scansa tutti quelli che incontri. Per adesso occorre fare così. Altrimenti qualcuno ti prende per un cane rabbioso e ti ammazza. Vai, Cane, sparisci: lo hai visto, da noi non puoi più stare. Vai e non tornare mai più. Hai sentito che cosa ha detto il nonno? Un uomo non può litigare con tutti per amore di un cane. Proprio non si può, a quanto pare. Io disubbidisco al nonno, ma tu non tornare più al villaggio, non combinarmi uno scherzo del genere, ché poi magari la rabbia ce l’hai per davvero. Non costringerci a fare un altro peccato. Adesso vai, bello, scappa…» Questo però non gliel’ho detto, l’ho soltanto pensato. Difficile stabilire se il cane abbia capito o meno che cosa avevo in cuore, ma quando mi sono alzato e ho ripreso la strada del villaggio lui non mi ha seguito.

            «Come è andata?» mi ha domandato il nonno al mio ritorno, vedendo che non dicevo nulla. Io mi sono tolto il fucile di spalla e gliel’ho porto. Il nonno lo ha preso, lo ha aperto e ha studiato le canne alla luce.

            «Se continui così, ragazzo mio, avrai delle noie nella vita» ha detto restituendomi il fucile.

*

Di lì a una settimana uno sciacallo si intrufolava nottetempo nell’ovile di Ekvtime Siaradze e gli sgozzava una capra. Passano due giorni e una volpe sgraffigna due ovaiole da un pollaio. Altri dieci giorni e Aslana Tavberidze trovava vuota una giara da centosessanta chili piena di grappoli di varietà bianca. Un bel giorno la mucca di Khak’una Berdzenišvili è entrata nel nostro cortile e ha brucato quattro alberelli appena innestati. Il mese dopo sono scomparsi nel nulla la vacca da latte di Nina Dzneladze e il torello di Sip’it’o Matitašvili. Una notte hanno svuotato il granaio di K’irile Titmeria, portando via tutto, senza lasciare un solo chicco. Finché la gente ha iniziato a mormorare, sono volate le allusioni, le calunnie, le male parole. Hanno iniziato a far sparire i pali delle staccionate e a scomodare i mortacci altrui. L’intero villaggio era a soqquadro, stavano tutti male.

*

Il 15 ottobre è venuta già una pioggia che il Gobazouli ha spazzato via i mulini di qua e di là dal nostro villaggio, trascinandoli giù nel Supsa.

            Il 16 ottobre il nonno mi ha mandato a macinare al mulino di Goraberežouli, miracolosamente sopravvissuto all’alluvione. La mia farina è venuta pronta intorno alla mezzanotte. Mi ero già caricato il sacco in spalla e stavo per tornare a casa quando sulla porta è comparso il tizio di Khevi, K’irile Mamaladze, e ha posato sulla pesa il grano da macinare.

            «Buonasera, Teofane!» ha salutato il mugnaio, senza riconoscere me.

            «Come sta il bambino, signor K’irile?»

            «Che bambino?»

            «Quello che lo aveva morso un cane con la rabbia!»

            «Ma no, alla fine non ce l’aveva, la rabbia» ha detto K’irile, mettendosi a calibrare la pesa.

            «Come come come, signor K’irile?»

            «E che ho detto di tanto straordinario? Alla fine quel cane non aveva la rabbia!» ha ripetuto K’irile e si è messo a badare ai fatti suoi.

            «Che Dio ti faccia vergognare, K’irile Mamaladze!» ho detto io e mi sono seduto sul sacco di farina, perché le ginocchia non mi reggevano.

            «Teofane! Ma di chi è figlio questo figlio di un cane? Non gli hanno insegnato le buone maniere?» ha domandato K’irile al mugnaio, esterrefatto.

            «Di chi sei, ragazzo?» mi ha domandato il mugnaio.

            «Non sono di nessuno, io» ho risposto e me ne sono andato per i fatti miei.

            Il 17 ottobre ho riflettuto per tutto il giorno e la notte seguente: era meglio riferire al nonno la cosa del mulino oppure no? Solo alle prime luci dell’alba ho deciso di tenere tutto per me.

            Il 18 ottobre il nonno ha rinunciato ad alzarsi dal letto.

            Il 20 ottobre mi ha tenuto a casa da scuola.

            Il 25 ottobre gli si sono gonfiati la mano e il piede destri.

            Il 27 ottobre mi ha chiamato al suo capezzale e mi ha consegnato le chiavi della cassetta.

            Il 28 ottobre mi ha ordinato di avvicinare uno sgabello, mi ha fatto sedere di fronte a lui e quando siamo stati faccia a faccia ha parlato così: «A questo mondo tutto ha un inizio e tutto ha una fine, bimbo. Per me è finita, che sia oggi o domani. È una cosa brutta partire per un destino ignoto, per cui se ti dicessi che non ho paura mentirei: ho paura sì… Ma tu, bimbo, non devi avere paura… Se dopo la morte c’è il nulla, non ho nulla da temere, perché nel nulla non c’è nulla. Se invece si muore e basta, come dicono, meglio ancora, perché allora resterò in questo mondo e tornerò in una forma diversa, come albero o come erba. Come uccello o come cane. Ma sappi che se ritorno, ritorno subito da te, non ti lascio solo. Se qualcosa ti darà un senso di calore, gioia e affetto, fosse anche solo una pietra, sappi che quella pietra è il tuo nonno… Quindi non avere paura di restare da solo, non dirti mai che non hai più nessuno. Tienimi da conto questa casa, bimbo, non abbandonarla, non lasciar spegnere le braci nel camino. Fai trovare a tuo papà il fuoco acceso, mezza galletta di mais e un bicchiere di vino. Al resto penserà lui quando ritorna. Da una settimana a questa parte vedo in sogno tutte le persone che se ne sono andate. Il tuo papà non mi è mai apparso. Segno che è ancora di questo mondo. Veglia sulla sua casa e sul suo nome, non dare soddisfazione ai nemici e vedrai che ritorna, il babbo, ritorna di sicuro. Se non quest’anno, l’anno venturo. Anche le guerre, come iniziano, finiscono. L’uomo inizia, l’uomo la smette. Ma la guerra non è mai la fine dell’uomo. Ora vai a prendere della legna, molta legna.»

            Quella notte non ho chiuso occhio. Il nonno non ha più detto nulla. Non ha mai distolto lo sguardo dalla fiamma che crepitava nel focolare, l’angolo della bocca increspato dall’ombra impercettibile di un sorriso.

            Il 29 ottobre ha provato un senso di oppressione al torace, faticava a respirare. Ha chiesto di alzarsi a sedere sul letto.

            L’ho tirato su e ho infilato dei cuscini tra la schiena e la testiera.

            «Arriva, arriva, la benemerita, ma ce ne mette…» ha mormorato tra sé e sé.

            Il 30 ottobre mi ha chiamato di nuovo e mi ha dato altri consigli.

           «Preparati, bimbo, preparati e non avere paura. Domani avrò una flussione di cuore. Ma ci sono consuetudini per ogni cosa e i vicini sapranno che cosa fare. Non preoccuparti. Il mio solo cruccio è che in casa non ci sia rimasta più una sola donna per il lamento funebre.

            Il 1 novembre, a mezzanotte, il nonno è sceso dal letto e si è piantato in mezzo alla stanza.

            «Bimbo, Gogit’a, l’ho vista!» ha detto con un accento di dolore e sorpresa indescrivibili nella voce.

            «Che cosa hai visto, nonno?» ho domandato io, ma prima che fossi riuscito ad alzarmi si è abbattuto sul tavolo ed è scivolato giù piano piano fino a ricadere all’indietro sul pavimento, lungo disteso.

            «Nonno!» sono accorso io, ma il nonno non c’era più.

            Era un uomo saggio, mio nonno, e tutto è andato come doveva andare.

            Io non ho avuto paura. Mi sono rivestito. Ho spalancato tutte le porte e tutte le finestre della casa e sono uscito sulla balconata.

            Fuori albeggiava, era l’aurora del 2 novembre. Il cielo era gelido e lustro come uno specchio, pallido, la Bilancia era sospesa sul nostro cortile. Sono sceso, ho calpestato a piedi nudi l’erba umida di rugiada. Ho sentito un brivido gelato per tutto il corpo. Nel campo frusciavano le stoppie non ancora falciate. Ho pensato, chissà perché: «Forse sanno tutto e ora stanno mormorando sul mio conto». Quando sono passato sotto il pero mi sono chinato a raccogliere un frutto caduto per terra, l’ho strofinato sul colletto della camicia da notte e ho affondato i denti nella polpa. Ho morso e morso, e solo allora ho sentito che avevo la bocca prosciugata. Ho spalancato il cancello del cortile, ho imboccato il viottolo tra le case e mi sono piantato all’ingresso della vicina.

            «Margalit’a!» ho chiamato da lì. Non ha risposto nessuno, per cui ho alzato la voce. Facevo ogni cosa con calma e gravità. Al mio secondo richiamo la porta si è aperta con un cigolio e Margalit’a è uscita sul balcone.

            «Chi va là?» ha domandato con voce impastata di sonno.

            «Sono io, Gogit’a.»

            «Che ti piglia, Gogit’a? Che ci fai qui in piena notte?»

            «Scendi giù in cortile, devo dirti una cosa.»

            «Gogit’a! Sei sbronzo?»

            «È morto mio nonno, Margalit’a. Vieni a piangerlo per me, ti prego.»

            «Gogit’a, sei uscito di testa!?»

            «Te lo chiedo per favore, Margalit’a, non piantarmi in asso, vieni ad annunciare la morte del nonno!» Margalit’a è scesa in cortile senza neppure vestirsi, a piedi nudi, ed è venuta con me. Passato il cancello ho lasciato andare avanti lei. Quando ha messo piede sulla scala si è guardata indietro, intimorita.

            «Non avere paura!» le ho detto io con voce tranquilla, sedendomi sull’erba di fronte alla balconata. Margalit’a è salita sul ballatoio, ha posato le mani sulla balaustra piena di rampicanti, si è sciolta i capelli e ha guardato verso il villaggio.

*

L’ultimo saluto al nonno è stato di domenica, il 4 novembre 1943.

            La gente ha iniziato ad arrivare di primo pomeriggio. Le donne del vicinato, che facevano le veci dei parenti in lutto, piangevano me invece che il morto.

            «Gogit’a, miserello! Che ne sarà di te ora, creatuuura?»

            Io piantonavo la porta con la fascia nera al braccio e porgevo la mano in silenzio alle persone che venivano per le condoglianze. Non una lacrima, non un sospiro.

            «Piangi, Gogit’a, piangi, altrimenti il cuore ti va in pezzi» diceva Margalit’a.

            Io facevo di sì con la testa: «Piango, piango, vedrai». La gente veniva avanti in ordine di parentela, legami di battesimo, genealogia e vicinato, ciascun gruppetto preceduto da due bambini con coroncine di tarassaco in testa e una donna dai capelli discinti. Il viottolo, il cortile e la balconata erano pieni di gente. Cianciavano, discutevano, facevano le loro considerazioni. Qua e là si sentiva qualche risatina appena camuffata. Di punto in bianco in cortile è dilagato lo scompiglio: dopo un primo momento di trambusto la gente si è divisa in due, facendo ala. Pieno di cardi, inzaccherato di argilla rossastra, ispido, più morto che vivo, un cane veniva avanti dal cancello spalancato. Si è fatto strada tra la folla che gli cedeva il passo senza guardare né a destra né a sinistra, è salito sulla balconata, è entrato nella stanza grande, dove era esposto il nonno, l’ha attraversata, è entrato nella camera da letto e ha ispezionato il letto vuoto, poi è tornato in sala. Si è piantato di fronte al feretro, appoggiato contro un divano. Si è alzato sulle zampe posteriori, si è puntellato con le zampe anteriori contro la seduta, ha stirato il collo ed è rimasto a fissare il nonno, bello, incorrotto, pacifico e benevolo nella sua bara. Dapprima il cane lo ha fissato lungamente, poi si è girato, si è allontanato dal morto e si è accovacciato ai miei piedi, trattenendo il fiato.

            «Gloria a Dio nell’alto dei cieli!» ha salmodiato qualcuno alle mie spalle. Allora non ce l’ho più fatta. Mi sono preso il viso tra le mani e sono scoppiato in un pianto dirotto.

            Verso le cinque c’è stato un altro miracolo. È venuto Badria, quello del tabacco. Quando ha visto il cane accoccolato ai miei piedi è trasalito, ma ha fatto finta di niente ed è venuto avanti per le condoglianze. Il cane gli ha sbarrato il passo. Il pelo tutto irto, la coda spianata, pronto ad aggredire. Le zanne gli brillavano mentre ringhiava in modo spaventoso: un brusio ritmico, come di sega. Badria ha fatto un salto indietro. Il cane ha mosso un passo avanti, puntandolo.

            «A cuccia, Cane!» ha detto Badria, bianco come un cencio.

            Il cane non muoveva un muscolo, teso come la corda di un arco.

            «Non mi lasci neppure piangere la buonanima del tuo padrone?» ha scherzato goffamente Badria. Il ringhio si è fatto più sonoro ancora e il cane ha mosso un altro passo avanti.

            «Di’ qualcosa al tuo botolo, ragazzo!» si è rivolto a me, non sapendo più cosa fare.

            Allora, come un lampo, mi è ritornata in mente una frase del nonno: «“Lui lo sa chi gli ha sparato, hai voglia se lo sa, ma provaci tu a farlo parlare!”».

            «Sparisci, Badria. Levati dal mio cortile!» gli ho intimato. Poi ho ripensato a un’altra frase del nonno, quella volta che gli ho restituito il fucile con le canne vuote: «Se continui così, ragazzo mio, avrai delle noie nella vita». Ma non mi sono rimangiato nulla. «Sparisci, Badria. Levati dal mio cortile!» ho ripetuto, e Badria ha fatto come dicevo.

*

La mattina presto mi ha svegliato un rumore. Sono uscito in mutande sulla balconata.

            «Gogit’a! Giovane! Lega questo figlio di cani, altrimenti ci sbrana vivi» urlava uno dei vicini, venuti a riprendersi le sedie.

            Ho guardato dalla parte del villaggio. Dalle abitazioni in legno, simile a un pennacchio, saliva un filo di fumo bianco. I galli cantavano, le vacche muggivano, le capre facevano baah, i capretti facevano beeh, le galline chiocciavano, un sole gigantesco era spuntato dal K’onckhoula… e all’improvviso mi ha invaso un’ondata di calore. Alle mie orecchie era giunto un suono delizioso, come uno squillo.

            Nel mio cortile abbaiava un cane.

© Nodar Dumbadze 1974

© Francesco Peri 2021 per la traduzione

Galak’t’ion T’abidze (1892-1959), «Neve» (1916) [Work in progress]

[Tentativo impromptu di rifare in italiano l’intraducibile classico del giovane T’abidze, provando a far passare qualcosina dell’originale – uno dei punti di riferimento del simbolismo georgiano. Nell’ordine: i colori, le immagini (tutte conservate pressoché alla lettera), il metro a quattro piedi per verso, lo schema a rime alternate (dove possibile), la fregola delle allitterazioni e degli effetti fonici, l’effetto impressionista di una sintassi dislocata che procede per tocchi e associazioni, il tono malinconico e nobile da bravo poetello crepuscolare. Delle versioni disponibili in Rete (Magarotto, Ch. Michel, P. Urušadze) è la più completa e fedele. Ma finché lo dico io non vale. F.P.]

გალაკტიონ ტაბიძე - ლექსები, პოემები ...

 

Neve

Vergine coltre di neve violetta,
Dolce veduta dal dosso di un ponte:
Mite ai miei umidi e ghiacci pensieri,
Mite all’amore sa farmi, paziente.

L’anima, vedi, si riempie di neve,
Fuggono gli anni, sbiancano i crini.
Della mia patria ho saputo vedere
Solo i deserti, velluti azzurrini.

Contro gennaio non serbo rancore
Mi era destino dibattermi invano
Però continuo a sentire il candore
Della tua cerea, pallida mano.

Cara, le mani… Le vedo sfumare,
Stanche, di neve in un fragile serto.
Spunta, dilegua, poi torna a spiccare
Il tuo foulard in quel bianco deserto…

Quindi mi è dolce la coltre violetta
Lungo le rive, dal ponte, a discesa:
Triste presagio di esili, di erranza,
Come un’aiola di gigli a distesa.

[…]

(L’altra metà segue a breve, musa e prole permettendo)

Ominde K’ordzaia (1912-1986), «Bricchetto»

[Redatti all’insaputa dei parenti in lingua svan, i ricordi di Ominde K’ordzaia, nonno di una delle maggiori scrittrici georgiane viventi, Ana K’ordzaia-Samardašvili, sono stati raccolti e pubblicati dopo la sua morte per iniziativa del Museo statale Giorgi Leonidze, nella traduzione georgiana di un altro discendente, Arsen K’ordzaia. Che qui viene ritradotta in italiano. Sono aneddoti sulla vita, sui costumi e sulle forme di socialità di una delle più suggestive e isolate regioni montane della Georgia, lo Svaneti (o Svanezia), dalla prima epoca sovietica agli anni Sessanta.]

Svaneti Towers: the Crown of the Highest Village in the Europe

In casa tenevamo un bellissimo asino bianco. Non ricordo di preciso come fosse capitato da noi, credo che mio padre lo avesse portato dal basso Svaneti.

            Aveva un pessimo carattere, ombroso. Aggrediva senza alcuna ragione le altre bestie e le mordeva. Neppure i buoi lo tenevano in rispetto. Spianava le orecchie sulla nuca, scopriva i denti e caricava gli animali, a volte addirittura le persone. Con noi della famiglia non era cattivo, però gli estranei qualche volta li mordeva. Pur essendo bene addestrato sulla groppa ci prendeva solo me: dagli altri non si lasciava cavalcare. Ero io che l’inverno gli davo il foraggio, ero io che lo portavo fuori a bere, per cui forse mi vedeva come il capofamiglia.

            Aveva un’andatura straordinaria, impeccabile all’ambio. Sulla spianata del villaggio venivano spesso a sfidarmi per scommessa. Lui si lasciava dietro i cavalli. Quando lo vedevano muoversi facevano tanto d’occhi. Se montavo in groppa e gli lasciavo la briglia sciolta lui partiva sempre all’ambio. Non che in sella mi facesse ballare, anzi, però sentivo gli occhi appannarsi e mi sgorgavano le lacrime, vai a sapere perché. Con i cavalli questo non succede.

            Una domenica ho pensato bene di salire al villaggio di K’ala, dove stava una certa mia zia da parte di padre, sposata. Volevo andare a trovarla. Così ho sellato Bricchetto (l’asino si chiamava così) e gli ho dato dell’avena in un recipiente di legno perché, mi sono detto, così si ricordava chi comanda. Quando ha finito di mangiare gli sono montato in groppa e siamo partiti verso K’ala.

            Sulla via per K’ala, circa a metà strada, nel punto che chiamano Udumbura, ho visto dei ragazzi del villaggio vicino, Ieli. Stavano sistemando la strada carrozzabile. Era domenica, e la domenica, nello Svaneti, è giorno di riposo. Non usa lavorare mai, né in casa, né sui campi, né sui prati. Dice un proverbio che sarebbe comunque lavoro di scarso profitto. Quei ragazzi di Ieli, però, erano di corvée: ce li aveva mandati la comunità.

            Vedendoci arrivare hanno molto elogiato l’andatura del mio somaro e uno di loro, Isaq’ Khvibliani, mi ha chiesto di lasciargli fare un giro.

            Io gli ho risposto: “Isaq’, questo non prende in groppa nessuno, si lascia cavalcare solo da me. Non farmi smontare per niente, tanto in sella non ti ci fa salire.” “Mi venisse un accidente! Se tu ci sei salito e non ti ha buttato giù perché non dovrei riuscire a cavalcarlo anch’io, il tuo asino?” Allora gli ho proposto una scommessa: se riusciva a montare il mio asino e lo portava a fare un giro avrei pagato pegno – dieci bottiglie di acquavite. “Però se invece non ti fa salire e non ti dà retta quelle dieci bottiglie le offri tu.” Ci siamo dati la mano. Zakar Samsiani è venuto a separarci recitando la formula: “Sia come avete detto”.

            Sono smontato, ma tenendo la briglia in pugno. Non avevo alcuna fretta di passarla a Isaq’. Finché non è intervenuto Irod, suo fratello. “Dato che insiste, passagli la briglia.” Al che ho avvertito di nuovo Isaq’: “Guarda che l’asino è scontroso” gli ho detto. “Non ci puoi riuscire, non ti lascia.”

            “Tu eri lì in sella che parevi il prevosto di Šgedi, parevi, e non ti è successo niente. Allora figuriamoci se mi faccio comandare dal tuo asino.”

            Šgedi è un villaggio del basso Svaneti. Una volta, in effetti, ci viveva un prete, un certo Gabiani. Quelli della mia generazione non lo hanno mai visto, ma ne avevamo tutti sentito parlare. Era stato un uomo dalla lingua pronta e tagliente, e a quanto pare girava sempre in groppa a un asino dal manto grigio. Quando mi ha paragonato al pretacchione di Šgedi ci sono rimasto male. L’ho anche dato a vedere, ma la briglia gliel’ho passata. E mi sono spostato con gli altri ragazzi a qualche metro di distanza.

            Isaq’ mi ha strappato di mano le redini, le ha posate sul pomolo della sella, ha infilato un piede in una delle staffe ed è balzato sulla groppa dell’asino. Era un ragazzo snello e agile, per cui l’asino non è sembrato accorgersi di quello che stava succedendo sulla sua schiena. È rimasto come indifferente finché Isaq’ non ha strattonato la briglia, piantandogli i talloni nei fianchi. Allora invece di rialzare la testa l’asino ha spianato le orecchie all’indietro, ha puntato il muso contro il terreno e ha scalciato in aria con le zampe posteriori. Si è alzato talmente che mi è parso di vederlo fare una capriola e atterrare sulla schiena.

            Non appena ha toccato terra ha scalciato di nuovo ed è rimasto lì in verticale sulle zampe anteriori, diritto come una colonna. Neppure un ragno sarebbe riuscito a rimanergli aggrappato alla schiena, figuriamoci un essere umano. Isaq’ è stato sbalzato di sella. È riuscito a sfilare il piede destro dalla staffa destra, ma il sinistro gli è rimasto incastrato. In un batter d’occhio l’asino ha fatto dietro front, ha puntato verso ovest – cioè da dove eravamo venuti – ed è partito al galoppo in quella direzione, imbizzarrito. Isaq’ aveva il piede intrappolato nella staffa, puntava le mani contro il terreno per proteggere il viso, ma c’era poco da fare. Era una strada pietrosa e piena di asperità, rischiava di ridursi la faccia in poltiglia.

White Donkey Blank Template - Imgflip

            Per nostra fortuna un altro compagno, Iese Khvibliani, si era addentrato nei cespugli un po’ più in là. Quando ha visto il somaro galoppare ventre a terra trascinandosi dietro Isaq’ è saltato fuori dalla macchia, ha brandito un ramo e si è parato davanti all’animale. È riuscito ad afferrare la briglia con una mano, mentre con l’altra gliele dava sul muso, finché non è riuscito a farlo fermare.

            Siamo accorsi tutti quanti. Isaq’ aveva la faccia e le mani insanguinate, una gamba dei pantaloni era a brandelli. A quanto pare aveva sbattuto contro una pietra o un ceppo. Proprio in quel punto i ragazzi di corvée avevano appeso i loro cappotti, per cui hanno tirato giù un paletot e ci hanno steso sopra Isaq’. Uno dei compagni è sceso al fiume per attingere dell’acqua.

            “Ben ti sta!” gli ha detto Ražden, un altro dei suoi fratelli. “Ominde te lo aveva detto, e anche noi ti avevamo avvertito. Hai voluto fare di testa tua e adesso te la porti a casa.”

            “Che vada in malora Ominde con il suo asino e tutta la baracca” ha borbottato Isaq’.

            Io non ho risposto nulla. Sono ripartito a piedi e dopo un bel pezzo, quando non potevano più vedermi, sono saltato in sella all’asino. A K’ala non mi sono trattenuto più di tanto. Quell’episodio mi pesava sul cuore. Sulla via del ritorno ho visto Isaq’ che lavorava insieme agli altri. Mi ha fatto molto piacere sapere che stava bene. Gli ho persino dato una voce, per scherzo: “E con la scommessa come la mettiamo? A Iese gliene vengono minimo sei, di bottiglie”. “Ti vengano sei accidenti a te e al tuo asino” mi ha riposto Isaq’.

            “Lascialo perdere, non ci sta più, adesso è di cattivo umore” ha interloquito Ražden. A me, naturalmente, non importava un bel nulla delle bottiglie che aveva perso per scommessa. Gliene avevo riparlato soltanto per capire se era offeso con me. Ho sentito che mi rispondeva malvolentieri, non gli andava di parlare. Non era il caso di farla lunga. Per cui non ho più detto nulla.

            Mi sono avviato verso casa. Nel villaggio di Bogreši ho comprato dieci bottiglie di acquavite da una moglie di contrabbandiere. Ho dato una voce ai miei parenti e mi sono fatto regalare del formaggio, del pane e delle verdure. Lì vicino era montato un macchinario da segheria, con dei tronchi e una serie di assi già spianate. Ci ho apparecchiato sopra la tavola.

            C’era un grosso viavai per via della corvée, ma siccome era domenica la gente ciondolava con le mani in mano. Mi fanno: “Cosa combini di bello, Ominde?”. Ho risposto che aspettavo degli ospiti di riguardo e che volevo accoglierli con tutti gli onori. Allora hanno chiamato i bambini e li hanno mandati a casa a prendere chi del formaggio, chi della carne, chi dell’acquavite, chi del pane o dei cipollotti – è venuto fuori un bel banchetto improvvisato.

            Il villaggio di Ieli distava sei o sette chilometri, per cui i lavoratori sarebbero dovuti passare di lì prima del tramonto, e io questo lo sapevo. Anzi, avevo appena finito di apparecchiare quando sono passati di lì. Sono andato loro incontro e li ho invitati a tavola. Loro si sono messi a schiamazzare tutti felici: “Ma che bella sorpresa!”. Ho tenuto d’occhio Isaq’, ero curioso di vedere come si comportava. Anche lui ha preso posto a tavola senza tante cerimonie, soddisfatto. La cosa mi ha fatto piacere, se devo dirla tutta.

            A capotavola mi sono messo io. Nessuno ha chiesto spiegazioni, né io ne ho date. Invitavo a cena dei vicini come loro invitavano me quando mi trovavo a passare per Ieli. Erano tutte persone care con le quali ero in buoni rapporti.

            Quando ha iniziato a fare buio sono andati a prendere un braciere a tre gambe in casa di Besarion Gulbani e altri ce ne hanno portati alcune famiglie di lì. Nei paraggi della segheria c’erano moltissimi trucioli. Hanno raccolto quelli secchi e hanno acceso il fuoco nei tripodi. A quei tempi nello Svaneti la luce elettrica non c’era, eppure siamo riusciti a rischiarare che imbroccavi la cruna di un ago.

            Abbiamo cantato e abbiamo ballato, ragazzi e giovani. C’era un’aria di festa che neanche a prepararsi con un mese di anticipo. Tutto è venuto da sé.

            Adesso ho 72 anni. Iese è un po’ più anziano. Una volta che ci siamo rivisti gli ho ricordato quel giorno.

            “Lo sapevate che avevo giù i pantaloni quando ho fermato l’asino?” ha riso.

            Nessuno di noi se ne era accorto.

           Traduzione di Francesco Peri
© Francesco Peri 2020

 

 

 

Galak’t’ion T’abidze, «In esergo» (1925)

[La concisione estrema, il nitore formale e l’ingannevole semplicità del verso di T’abidze, placidamente adagiato nella metrica e nella rima, senza enjambement o sincopi, senza sforzo apparente, fatto di pochi e scarni elementi giustapposti, eppure sempre in bilico sull’orlo più estremo della lingua, rendono la sua poesia tanto appagante alla lettura quanto difficile e ingrata da tradurre.

Queste quattro quartine, parte “obbligata” di un progetto editoriale in corso, più che scelta di gusto, sono particolarmente oscure: dietro il riferimento di facciata a Hegel, evocato a due riprese, si profila un flirt con la visione presocratica del mondo che può far pensare, data l’epoca, a Nietzsche, ma non senza un richiamo alla teologia neoplatonica del “silenzio” e della “tenebra” incarnata dal Corpus Dionysiacum (che oggi molti attribuiscono proprio a un vescovo georgiano del V secolo, Pietro Iberico).

Costretto a prendere decisioni, ho tentato di rendere alla lettera il ragionamento, ma in un verso libero che mimasse la cadenza metrica dell’originale, simulandone il ritmo di tetrametro. La semplicità “ellenica” del dettato di T’abidze è irrecuperabile: qui viene approssimata in forme postume, come attraverso un velo di nostalgia, dando una patina arcaizzante che vuole ricordare certe vecchie traduzioni dal greco o dal tedesco].

 

Galak’t’ion T’abidze (1892-1959)
In esergo (1925)

Conviene ai fanciulli il discorso morale,
Ché l’uomo scafato, dall’animo saldo,
Intende altrimenti i rumores dei vecchi,
Come a ragione sostiene anche Hegel.

Ma un altro discorso è tra il cielo e la terra,
Per esso il gran Tutto perviene a coscienza:
Insegna che al mondo ogni cosa trascorre
E cionondimeno ogni cosa permane.

Hegel ha scritto: nel santo chiarore,
Nell’alta pania della luce più pura,
S’intende assai poco, e così oscuramente,
Che sembra regnare una santa tenèbra.

Plana il pensiero su un bianco sepolcro
Di fuoco insaziabile e ceneri spente.
E la parola? Discorso può dirsi altrimenti:
Logos, il senso di quanto sussiste.

(1925)

Traduzione di Francesco Peri
© Francesco Peri 2017

Mostra immagine originale

წარწერა წიგნზე (1925)

ზნეობის სიტყვა ყრმას თუ შეჰფერის:
გამოცდილი და შეუდრეკელი,
სხვაგვარად ისმენს ოხვრა ბებერის,
როგორც ნამდვილად ამბობს ჰეგელი.
მეორე სიტყვა არით არეობს
და შეგნებამდე მიჰყავს მთელივე,
რომ ყოველივე მიმდინარეობს
და იმავე დროს დგას ყოველივე.
წმინდა ნათელში, ამბობს ჰეგელი,
წმინდა სინათლის დიად ბადეში
ისე ცოტაა გასაგებელი,
როგორც რომ წმინდა სიწყვდიადეში.
შედგება ფიქრი თეთრ აკლდამაზე
გაუნელებელ ცეცხლის, ნაცარის,
სიტყვა? სხვა არის ფიქრი ამაზე…
ლოგოსი… აზრი – მისი, რაც არის.

Važa-Pšavela, «Il lamento della spada» (1890)

[Una vecchia traduzione ritrovata. La spada che parla è un gorda, una sorta di pugnale allungato dalla lama leggermente ricurva. Šamkor è l’odierna Şəmkir (Azerbaigian), nel 1195 teatro di una celebre battaglia tra l’esercito georgiano e le forze dell’atabeg azero, risoltasi in schiacciante vittoria per la regina Tamara. F.P.]

Mostra immagine originale

Važa-Pšavela
Il lamento della spada (1890)

 

«Sei rosa dalla ruggine, o sciabola,
Il fodero ti si è ammuffito.
Che fine ha fatto – dimmi – il padrone,
Che renderebbe splendore al tuo acciaio?»
«Che fine ha fatto, fratello, il padrone?
L’ho abbandonato sul campo di Šamkor,
Trafitto dalle lame di quaranta nemici,
morto, il sangue scorreva a fiumi.
Lui amava guerreggiare tra i primi,
Lo scudo saldamente in pugno,
E non ambiva a cadere in battaglia
Purché fosse salvo l’onore dei suoi,
Della corona regale di Tamara
E del nome del regno di Georgia.
Ora guarda in che stato ridotta… Appesa,
Inutile, in casa di vigliacchi;
Chi ha più tempo da pensare a me
In un paese ridotto a bottega?
Mi porteranno al monte dei pegni…
E per le mani di funzionari
Mi si vedrà in giro accompagnata
Al bilancino e al regolo calcolatore.
Da settecento anni più nessuno
Mi ha ingrassata con la coda di pecora,
Nessun georgiano ha affilato il mio taglio
Canticchiando sommessamente.
Non odo più quella voce che diceva:
“Fendi, aprimi un varco tra le schiere!
Se non mi aiuti a procacciare la gloria
Con quale coraggio tornerò a casa?”»

Traduzione di Francesco Peri
© Francesco Peri 2017

Mostra immagine originale

ვაჟა-ფშაველა
ჩივილი ხმლისა (1890)

– დაჰჟანგებულხარ, გორდაო,
დაგობებია ქარქაში.
სადა გყავს შენი პატრონი,
დაგაწყებინოს კაშკაში?
– სადღა მყავს, ძმაო, პატრონი:
შამქორს გავწირე მკვდარია,
ორმოცგან სჭირდა ნახმლევი,
სდიოდა სისხლის ღვარია.
ომში წინ წასვლა უყვარდა,
ხელთ დაბღუჯვილი ფარია;
არას დასდევდა სიკვდილსა,
ოღომც არ შარცხვეს ჯარია,
მეფის თამარის გვირგვინი,
ქართველთ სამეფო გვარია.
ეხლა უშნოდ ვარ… დამკიდეს
ლაჩართ კედელზე უქმადა;
ვისღა სცალია ჩემთვისა,
ქვეყანა იქცა დუქნადა.
გადამაგდებენ გირაოდ…
და გზირ-ნაცვლების ხელითა
ქვეყანა მხედავს მდებარეს
«არშინის», «ჩოთქის» გვერდითა.
შვიდასი წელი გამიხდა,
არ გავპოხილვარ დუმითა,
არ ვულესივარ ქართველსა
დაღიღინებით ჩუმითა.
მისი ხმა აღარ მსმენია:
«გასჭერ, გამიშვი წინაო,
თუ სახელს არ მაშოვნინებ,
როგორ დავბრუნდე შინაო!»