Nodar Dumbadze (1928-1984) – «Il cane» [1974]

Questa storia inizia nel 1941 e si conclude a distanza di due anni. Si era in guerra da un paio di mesi quando il fiato glaciale della mobilitazione è arrivato a lambire anche il nostro villaggio. Eppure il contadino della Guria, avvezzo a campare da signore, non ha capito subito che orrenda catastrofe si era abbattuta sul nostro paese, e lì per lì ha continuato a fare la bella vita. Per cui già nel mese di agosto più di un granaio, più di una giara, più di una cassetta dei risparmi si erano ritrovati vuoti. Quantomeno in casa nostra è andata così.

            Mio nonno Sp’iridon, reso impotente dalla gotta, sedeva giorno e notte davanti al camino per via del gelo che sentiva nelle ossa, per cui tutto il peso delle varie faccende ricadeva sulle mie spalle. Per tacere del resto, andavo e venivo tutto il giorno dal bosco per fare legna e riportare a casa dei rametti secchi, badando a tenere sempre acceso il focolare per il nonno, che appunto aveva il gelo nelle ossa.

            Al 25 agosto 1941 non rimaneva più una briciola. Così il nonno mi ha fatto tirare giù dal ripiano più alto una damigiana da dieci litri tappata con foglie di pannocchia, piena della grappa digestiva che prendeva per aiutare il fegato, e mi ha detto: «Questa qui la metti nella gerla, vai al mercato di Čokhat’auri e la baratti contro un pud di grano. Se qualcuno si azzarda a offrirti meno di sedici chili, tu gliela dai in testa e vieni via. Soltanto io so quanto vale questa… è grappa alla mora, distillata a ottanta gradi.» Ha seguito la damigiana con uno sguardo triste, ha cacciato un sospiro e mi ha fatto segno con la mano: «Vai, vai».

            Altro che picchiarla in testa alla gente! Al mercato ho trovato un tale estimatore che mi ha vuotato nel sacco senza fare storie un pud di chicchi gialli grossi come un’unghia, e per mancia mi ha infilato in tasca tre monete da dieci rubli, dandomi un buffetto sulla guancia e facendomi promettere di tornare a trovarlo tra una settimana, stesso posto.

            Dirimpetto alla piazza del mercato c’era una tavola calda, per cui ho socchiuso la porta e con la gerla ancora in spalla mi sono avvicinato al bancone.

            «Polpette ce ne ha?» ho domandato all’oste.

            «Soldi ce ne hai?» mi ha domandato quello.

            «E come no!»

            «Quanti?»

            «Trenta rubli.»

            «Fa’ vedere.»

            Glieli ho fatti vedere.

            «Siedi, dai, ti porto in tavola io.»

            «Tre porzioni» ho ordinato posando a terra la mia gerla.

            «Giovane… non sarai mica un po’ ritardato?» mi ha domandato l’oste senza tanti preamboli.

            «Ho fame!» ho ribattuto io.

            «Cosa ci vuoi di contorno? Patate o pastasciutta?»

            «Due con la pasta e una con le patate, le tre porzioni servite a parte.»

            «E quante limonate vuoi?»

            «Tre» ho riposto io, procedendo a slacciarmi la cintura.

            Da come mi ha fissato avresti detto che voleva domandarmelo di nuovo, se ero nato un po’ scemo di mio, ma poi ci ha ripensato. Quando mi ha portato da mangiare mi ha chiesto in tono carezzevole: «E quei trenta rubli di prima che fine hanno fatto?»

            «Ce li ho qui!» ho risposto tutto baldanzoso, cavando di tasca le tre monete color rame. L’oste ha preso i soldi e li ha esaminati alla luce. Sotto il grembiulone sudicio portava un altro grembiule ancora più lercio. Si è infilato le monete nella tasca sul davanti di quello, mi ha detto: «Siamo a posto», ha sorriso ed è partito per i fatti suoi.

            Un cane basso, lungo e nero, tutto emaciato, si è intrufolato alla chetichella. Si è messo a passeggiarmi davanti, andando su e giù, guardandomi un po’ di sottecchi. Poi, siccome non lo cacciavo via, si è fatto vicino. Gli ho gettato un po’ di vermicelli, perché una polpetta onestamente non potevo. Lui ha acchiappato il cibo al volo e lo ha inghiottito all’istante. Allora ha preso coraggio. Mi si è seduto di fronte, scodinzolando e sbavando dalle fauci. Gli ho lanciato un altro po’ di pasta e lui di nuovo l’ha acchiappata al volo. Poi, quando ho smesso di fargli caso, ha latrato per attirare la mia attenzione: «Guarda che ci sono ancora!».

            «Fuori di qui, bestiaccia, ti andasse a fuoco la pelliccia!» ha sbraitato l’oste, montando sulle furie.

            «Come si chiama?» gli ho domandato.

            «E che ne so… lui e il suo canchero di padrone!»

            «E il padrone chi è?»

            «Boh, gli è morto. Fuori, cane, fuori!» tuonava l’oste minacciandolo con un coltellaccio.

            Il cane è sgattaiolato fuori con la coda tra le zampe.

            Io ho finito di pranzare, ho preso di nuovo la gerla in spalla e mi sono avviato verso l’uscita. In effetti tre porzioni erano un po’ troppo. Facevo fatica a respirare.

            «Mi viene nulla di resto?» ho domandato tanto per dire.

            «Ma tu mi vuoi vedere in mezzo a una strada!» ha ribattuto l’oste.

            «Proprio niente niente?» – io ci ho provato.

            «Poveretto chi ti dà da mangiare!»

            Aveva pena per il mio nonno. Tornato all’aperto ho visto con la coda dell’occhio quel cane di prima che si intrufolava di nuovo nella tavola calda. Mi sono incamminato verso il villaggio, ma avevo mosso sì e no dieci passi quando mi è giunto all’orecchio il guaito straziante di un cane, un suono che mai potrei descrivere a parole. Di punto in bianco, come impazzito, il cane mi è sfrecciato accanto con un sibilo, si è scaraventato nell’acqua sotto il ponte, è risalito a riva e ha iniziato a voltolarsi nella ghiaia, mandando degli uggiolii pietosi. Mi sono guardato alle spalle e sull’ingresso della tavola calda, il naso come un otre, c’era l’oste che brandiva un tegame fumante.

            «Gli hai buttato dell’acqua bollente?» ho domandato.

            «No, gli ho riscaldato le zampine» ha sogghignato l’oste.

            «Ma sei proprio una faccia da stronzo!» gli ho detto io.

            L’oste ci è rimasto di stucco. Poi ha posato il tegame, si è rimboccato la manica destra e mi è venuto sotto, la faccia blu per la rabbia.

            «Adesso te lo faccio vedere io chi è stronzo!»

            Ho posato a terra la gerla, mi sono chinato e ho raccolto una grossa pietra dal ciglio della strada. L’oste non si è più mosso, pareva imbambolato. Per un po’ è rimasto lì come una bella statuina, poi, quando gli è passata la congestione, ha scrollato la testa con aria sconsolata ed è tornato dentro.

*

Accucciato sotto il ponte, il cane si copriva il muso ustionato con le zampe anteriori. Di quando in quando dava in singhiozzi e mandava uggiolii pieni di amarezza, il pelo tutto fradicio. Ho cercato di avvicinarlo, ma lui mi ha ringhiato. Allora l’ho osservato meglio. Era scottata anche la zampa destra.

            «Lasciami avvicinare» gli ho sussurrato. «Che cosa mi hanno fatto!?» guaiolava, come volesse sfogarsi con me. Mi sono accucciato lì di fronte. Lui si è irrigidito, in attesa. Dall’occhio sinistro, rimasto sano, gli colava un torrente di lacrime. «E ora che ci faccio con questo?» ho pensato. Poi mi sono sfilato la camicia, l’ho strappata in due e ho immerso la stoffa nell’acqua. Quando ho iniziato a bendargli l’occhio lui si è messo a lacrimare di nuovo. Mentre gli fasciavo la zampa ha iniziato a leccarmi la mano. Allora non ce l’ho più fatta: mi sono seduto sulla ghiaia e sono scoppiato a piangere anch’io. Il cane, essendo un cane, non ci capiva più nulla: che cosa aveva da piangere quel tizio? Si è trascinato verso di me e mi ha posato il muso in grembo.

            Ricordo che avevo quattordici anni quando la figlia di Gervasi Jabua, Tina, si è sposata con uno di Nabeghlavi, Arsena Siamašvili. È stata la prima volta che ho pregato in cuor mio: Signore, fammi avere subito vent’anni, lascialo sposare a me quell’angelo di donna… E ora pregavo per la seconda volta: Signore, fammi avere l’età di quell’oste e poi ammazzami pure. E mai più in vita mia ho desiderato che un voto si avverasse come quel giorno sotto quel ponticello.

*

«E questo che roba sarebbe, bimbo?» mi ha domandato il nonno, preso alla sprovvista, quando ho tirato fuori dalla gerla un cane sbollentato e gliel’ho posato di fronte.

            «Un cane!» ho risposto.

            «Bel cane davvero…» ha commentato il nonno sputando nelle braci del camino.

            «L’oste gli ha gettato dell’acqua bollente.»

            «Si vede che mangiava troppo» ha ribattuto il nonno, dando la colpa al cane.

            «Ma se è tutto pelle e ossa!» l’ho difeso io.

            «Leva un po’ quei cenci» mi ha ordinato il nonno.

            Ho disfatto le bende. Il nonno ha esaminato le parti ustionate.

            «Ha scelto un bel momento per sbollentare i cani, quel farabutto. In pieno agosto! Con questo caldo non si rimargina nulla… Vai a prendere del burro chiarificato e spalmaglielo dove ha male, dovrebbe dargli un po’ di sollievo. La zampa se le lecca da solo e guarisce, ma per l’occhio gli serve aiuto.»

            Non me lo sono fatto dire due volte. E già la mattina seguente nel nostro cortile abbaiava un cane, un cane vero. Il latrato era ancora debole e malcerto, ma era indubbiamente il latrato di un cane.

*

Quanti nomi abbiamo fatto passare! Abbiamo provato a chiamarlo Jek’a, Neve, Jul’bars, come il cane di quel film… ora così, ora cosà, ma non ha risposto neppure una volta. Non essendo riusciti a imbroccare il nome vero, ci siamo ridotti a digli «Cane». Nel giro di un mese la zampa e l’occhio erano guariti. Nei punti ustionati gli era rispuntato un pelo nuovo, tutto candido. E gli donava talmente che in tutto il villaggio non c’era un altro cane così bello.

            Come cane, a parte quello, non brillava per talenti speciali. Va bene, evitava di sbranare le donne e i bambini e sapeva riconoscere tra mille la nostra gallina ovaiola, la sola che avessimo, quella dal collo a penne spioventi, ma altrimenti che razza di cane sarebbe stato? In fatto di esseri umani, in compenso, per lui esistevamo solo il nonno e io. Forse quella misantropia gli era rimasta dal giorno in cui l’oste gli aveva rovesciato addosso dell’acqua bollente.

            Quante ne abbiamo sentite dai vicini!

            «Sp’iridon, avremmo anche piacere a passare da te, ma quel bastardo che ti sei messo in casa non ci fa entrare neppure dal cancello. Perfino i fringuelli hanno paura di posarsi sul palo della tua staccionata. Legalo o fallo sparire.»

            Il nonno gli si era talmente affezionato che piuttosto avrebbe cacciato di casa me. A volte me lo dava come scorta quando uscivo nel bosco a fare legna, oppure se andavo a macinare al mulino, specialmente la sera, ma per il resto se ne stava sbracato ai piedi del nonno in attesa dei suoi ordini. Aveva occhi color miele, malinconici e intelligenti. Era flemmatico nei gesti, ma bastava che una mela o una pera cadessero a terra che lui, rapido come il lampo, schizzava via per non farsi fregate dal maiale, si precipitava ai piedi del tronco, ghermiva il frutto e ritornava dal nonno. Il nonno, per parte sua, gli agguantava la collottola e strattonava gentilmente la pelliccia per fargli i complimenti. Poi pelava il frutto, la polpa se la mangiava lui e le bucce le gettava al cane. E quello era tutto felice di accettare le bucce dalla mano del nonno, come se a terra nel frutteto non ci fossero state mele e pere in quantità. Era bravissimo anche ad ascoltare. Soltanto lui riusciva a sorbirsi senza battere ciglio una delle storie che il nonno aveva già raccontato cento volte. E più la storia era lunga, più attentamente il cane ascoltava. Anzi, gli brillavano gli occhi, quasi lo stesse supplicando: «Mi raccomando, per filo e per segno, guai a tralasciare un dettaglio!».

            Una volta ho sorpreso un discorso del genere:

            «È una guerra della malora, Cane, che a un bravo cane come te gli tocca mangiare le bucce» commentava il nonno scrollando tristemente il capo. E l’altro muoveva la testa su e giù, come per dargli ragione: «Dici bene! Parole sante!».

            «Te lo sei dimenticato, eh, che sapore ha la carne?» gli domandava il nonno.

            «E chi lo sa più» annuiva il cane.

            «Ma tu non preoccuparti, sai» lo rincuorava il nonno: «Non avere paura. Un giorno di questi salterà fuori Arsena, il babbo di Gogit’a. Penserà a tutto lui, si prenderà cura di noi… che te ne pare?». Il cane non lo aveva mai neppure conosciuto, mio padre Arsena, eppure guardava il nonno e faceva «Sì, sì» con la testa. «Non può durare, no, vedrai che finisce questa guerra sciupafamiglie…» continuava il nonno. «Forse mi passeranno anche questi acciacchi, non si può mica patire per sempre. E allora, sissignore, io prendo su, vado a Mosca, mi butto in ginocchio davanti a Stalin e allora vuoi che non me lo regali, un chilo della carne di Hitler? Per me e per te, Cane. Quel giorno ci strafoghiamo con la ciccia di Hitler! Prendiamo la ciucca con il suo sangue! Tu e io, cane, che dici? Però chissà quando capita, chissà…» si impensieriva il nonno, e il cane appuntava uno sguardo carico di interrogativi nei suoi occhi umidi di lacrime.

            I due compari se ne stavano così, a prendere il sole sulla balconata, ragionando: punto primo, finisce la guerra e torna a casa mio figlio…. punto secondo, la carne…

            Per il resto era un cane normale. La notte dormiva fuori, come tutti gli altri cani. Rispondeva con i suoi latrati al canto del gallo, al miagolio del gatto, al richiamo dello sciacallo, secondo il costume dei suoi simili, e ululava tetramente insieme a tutti gli altri cani del villaggio quando in una casa si piangeva un caduto. Anche lui ringhiava alla luna piena quando spuntava dalla Gola dell’Orso come un gigantesco occhio sbarrato. Nella stagione degli amori lazzaronava chissà dove. E come tutti i cani degni di questo nome, almeno dalle nostre parti, alzava la zampetta per annaffiare il sedano novello che verdeggiava negli orti. Così, uno dopo l’altro, passavano i giorni. Il nonno e io tiravamo a campare come campano gli esseri umani in tempo di guerra. Il cane campava come campano i cani.

*

La notte del 22 agosto 1943 si è scatenata una tremenda cagnara. Nessuno ci ha badato più di tanto, perché era tempo di calore.

            La mattina Aslana Tavberidze ha trovato un cane sbranato nella fonte dei Č’anišvili. Niente di strano neppure in quel caso, perché nella stagione degli amori finisce sempre che ci scappa il morto, per cui abbiamo scavato una buca lì vicino, abbiamo seppellito il cane malconcio e siamo ripartiti per i fatti nostri.

            Verso mezzogiorno è arrivato al villaggio un tizio di fuori che cercava un cane. Gli hanno indicato la casa di Aslana. Li ho sentiti dalla staccionata che dicevano così:

            «Piacere! K’irile Mamaladze di Khevi» si presentava il forestiero.

            «Qual buon vento la porta, signor K’irile?» gli ha domandato Aslana.

            «Cerco il mio cane. Mi hanno detto che uno dei vostri ha trovato un cane sbranato e lo ha seppellito.»

            «Sì, lo abbiamo seppellito io e quel ragazzo lì. Perché, non dovevamo?»

            «Ma si figuri, anzi, mille grazie per il disturbo. Però avrei bisogno di sapere dov’è.»

            Lo abbiamo accompagnato e gli abbiamo fatto vedere il punto. Lui ha riaperto la buca, ha tirato fuori il cane morto ed è rimasto a fissarlo.

            «Sì, è proprio il mio» ha confermato poi, in tono convinto.

            «E adesso? Organizziamo la traslazione della salma?» ha sogghignato Aslana.

            «Sì, un bel cavolo» ha risposto quell’altro a denti stretti: «Ieri a momenti mi sbranava la creatura, mi sbranava, questo figlio di una cagna. Alla stazione Pasteur mi hanno detto di portargli la testa per analizzare il cervello e vedere se magari è il caso di fare l’antirabbica al bambino. Io non dico per me, caro signor Aslana, ma la creatura le regge, secondo lei, quaranta punture nella pancia? Già mi è nato prematuro ed è giallo come un ranuncolo…» ha sospirato K’irile Mamaladze, tirando fuori un’accetta dal sacco. Io ho girato i tacchi e mi sono incamminato verso casa senza neppure aspettare Aslana.

            Ho raccontato tutto al nonno.

            «Ahia, qui si mette male» ha commentato lui dopo avere riflettuto, gettando un’occhiata al cane, beatamente allungato ai suoi piedi.

            Sul fare della sera è venuto al cancello Badria, quello del tabacco, e ha chiesto in prestito il fucile al nonno.

            «E che te ne fai del fucile, Badria?» ha domandato il nonno.

            «Devo abbattere il mio cane, Sp’iridon!»

            «Cosa ti ha fatto?»

            «Come, non lo sai che l’altra notte è venuto giù da Khevi un cane con la rabbia e l’ha attaccata a tutti i cani del villaggio?» ha domandato Badria. «Non c’eri lì anche tu, giovane? Quando quel tizio ha raccontato che il cane gli aveva morsicato la creatura?» ha aggiunto rivolgendosi a me.

            «Quell’uomo non ha mai detto che il suo cane aveva la rabbia!» ho bofonchiato io.

            «Sveglia, giovane! Quando mai si è visto un cane con la testa a posto che morde i suoi padroni? Un neonato, poi…» ha insistito Badria.

            Non ho trovato nulla da rispondergli.

           «Per una cosa del genere il fucile non te lo presto, Badria!» ha tagliato corto il nonno, a muso duro.

            «E io il cane come lo ammazzo?»

            «Con il palo della staccionata.»

            «Con il palo… non sono mica un mostro!» si è risentito Badria.

            «Io però il fucile non te lo do!» ha insistito il nonno. Badria ha capito che non era giornata.

            «Questa notte lo tieni chiuso nella stalla!» mi ha detto il nonno, posando la mano sulla testa del cane.

*

Il primo colpo è venuto dal cortile di Aslana Tavberidze. Il guaito di un cane ha lacerato il cielo.

            «Che giorno è oggi, bimbo?» mi ha domandato il nonno.

            «Il ventitré agosto» ho risposto io.

            «È iniziata la notte di San Bartolomeo!» ha commentato il nonno chinando la testa.

            Un secondo sparo ha fatto eco al primo, poi un terzo, poi un quarto e così via… Il rombo dei fucili rotolavacome un tuono di cortile in cortile. Ululati, gemiti, uggiolii, bambini in lacrime, bestiame che muggiva, tutto mescolato in un caos indistinto. Un botto nel cortile di Aslana, poi un altro sparo nel cortile della casa vicina, quella di Mak’aria, l’urlo di un cane, un guaiolare sommesso. Il mondo era finito sottosopra.

            «Con l’archibugio gli spara, brutto disgraziato!» ha commentato il nonno turandosi le orecchie: «Quante ne dovrà patire quella povera bestia mentre lui si arrabatta per ricaricare». Un’ora intera è durato quell’inenarrabile massacro canino. Per un’ora intera il cielo e la terra hanno crepitato tutto intorno. Per un’ora intera, fuori di sé per il terrore, il nostro Cane ha cercato di sfondare la porta della stalla, sprangata dall’esterno, ringhiando e digrignando le zanne. Poi, a poco a poco, il baccano si è acquietato. Finché da qualche parte non si è udito l’ultimo sparo.

            «Ehee-heheee» vocalizzava qualcuno con voce stentorea, a mo’ di bordone, riempiendo l’intero villaggio.

            «È finita. Ecco come ti ripagano i peccatori che hai creato, Signore» ha sentenziato il nonno sollevando le braccia al cielo, e sul villaggio è calato il silenzio.

*

Il gallo ha cantato, la mucca ha muggito, è suonata la campanella della scuola, il sole è sbucato dal K’onckhoula, la capra ha fatto baah, il capretto ha fatto beeh, il gatto ha miagolato, la gallina ha chiocciato, eppure la mattina non sembrava una mattina. Nel villaggio mancava qualcosa, qualcosa di impalpabile ma enorme, di familiare, caro, intimo. Quando ho visto passare Aslana con la roncola in spalla lungo il sentiero tra gli steccati senza un cane alle calcagna ho capito: quel non so che di gigantesco, di inseparabile dall’essenza del villaggio, come dire il suo sangue e la sua carne, era il cane, il bastardo communis. Nessun cane, nel nostro villaggio, ha salutato l’arrivo del mese di settembre 1943.

            Quella mattina il nostro Cane non è voluto uscire dalla stalla, non ha abbaiato una sola volta, non ha toccato cibo. Di ritorno da scuola l’ho trovato lì, buttato per terra ai piedi del nonno, gli occhi chiusi, come un cadavere. I fianchi si alzavano e abbassavano impercettibilmente, ma a parte quello non dava altri segni di vita.

«Che gli prende?» ho domandato al nonno.

«Sta digerendo la nottata. Ma tu non preoccuparti» ha aggiunto poi, accarezzandogli affettuosamente la testa: «È un cane, gli passerà di mente». Il cane non ha mosso un muscolo.

            Sul far della sera quello del tabacco, Badria, si è presentato di nuovo al nostro cancello. Da come parlava era sbronzo.

            «Buonasera, Sp’iridon!» ha salutato.

            «Buone cose a te, Badria» gli ha risposto il nonno. Che però, per qualche ragione, non lo ha invitato a entrare in cortile.

            «Ascolta, Sp’iridon…» ha iniziato Badria dopo qualche esitazione. «La gente mormora. “Ieri sera non si è sentito sparare nel cortile di Sp’iridon” dicono».

            «E perché avrei dovuto sparare, Badria? Forse nel mio cortile era la notte di capodanno? O è finita la guerra e il mio Arsena è ritornato dal fronte?» gli ha domandato il nonno.

            «Sp’iridon… non farti nemico il villaggio per amore di un cane. Ammazzalo e basta. Il tuo è meno bastardo dei nostri, per caso? Vuoi fare la figura del sentimentale?!»

            «Non posso, Badria» ha risposto il nonno. «Se lo ammazzo, chi ulula nel mio cortile quando muoio?»

            «Sp’iridon… se quel cane ha preso la rabbia e morde una delle mie creature, ti cospargo la casa di nafta e la incenerisco con te dentro!» ha tagliato corto Badria per poi allontanarsi con passo titubante.

            Iniziava già a fare buio, eppure ho visto il nonno impallidire.

            «Badria!» lo ha richiamato all’improvviso. Badria ha fatto dietro front. «Bada a te, farabutto! Metti un po’ di senno e non costringermi a peccare. Che non abbia a intiepidire queste ossa infreddolite con le braci della tua bicocca dal tetto di stoppie…»

            Non so che cos’abbia pensato in quel momento Badria, immobile nelle tenebre, però sapevo che il nonno non diceva mai per dire, per cui, se fossi stato in lui, avrei dormito male.

            Quella notte, in fondo al nostro giardino, sono echeggiati due spari in rapida successione, il secondo accompagnato dal ringhioso scainare di un cane. Inorridito, sono saltato giù dal letto, ho brandito il fucile e mi sono precipitato in quel punto. Qualcuno sgusciava tra le piante di piselli, defilandosi verso valle. Il nostro cane era riverso ai piedi della staccionata e uggiolava sottovoce. L’ho preso tra le braccia, l’ho sollevato e l’ho portato in casa. Il nonno ha acceso una lampada a petrolio e si è seduto a gambe incrociate sulle tavole del pavimento, di fronte al camino. Ha esaminato il punto in cui erano entrati i pallini. Lo avevano preso alla zampa posteriore. Prima ha tamponato la ferita con dell’alcol, poi ha applicato un impacco di foglie di tabacco e lo ha fasciato stretto stretto.

            «Non è nulla, non gli ha neppure sfiorato l’osso!» ha commentato il nonno. Poi ha guardato il cane come se avesse voluto domandargli qualcosa. E il cane guardava il nonno come se avesse voluto raccontargli qualcosa. Sono rimasti a fissarsi così per un bel pezzo.

            «Chi è stato?» mi ha domandato a bruciapelo il nonno.

            «Non lo so» ho risposto io.

            «Lui lo sa, hai voglia se lo sa, ma provaci tu a farlo parlare!» disse il nonno asciugando le lacrime del cane.

*

La mattina il nonno si è fatto accompagnare fuori, sulla balconata. Il cane si è tirato su, lo ha seguito zoppicando e si è allungato ai suoi piedi.

            La nostra casa era costruita su un’altura, e il nonno ora si guardava intorno come se quello non fosse stato il villaggio in cui era cresciuto, ma un posto dove era solo di passaggio e che vedeva per la prima volta. Poi si è rivolto a me e con voce rotta e mi ha detto: «Non hanno torto, ragazzo mio, non ci si può inimicare un villaggio per amore di un cane. Alzati, prendi il fucile, mettigli una corda al collo e… però io non voglio sapere niente, non voglio vedere niente. Vai sull’altra riva del fiume.»

            «E poi cosa faccio quando l’ho portato di là?!» ho domandato io, sentendo il mento che mi tremava e il labbro inferiore che non mi obbediva più.

            «Quello che hanno fatto tutti gli altri, bimbo» ha risposto evitando il mio sguardo.

            Mi sono alzato, ho messo il fucile a tracolla, gli ho legato una corda a mo’ di guinzaglio e ho dato uno strattone. Non ne ha voluto sapere.

            «Vieni via, Cane!» gli ho detto, strattonando di nuovo. Il cane ha strascicato le zampe, guardando il nonno con due occhi da condannato a morte.

            «Vai con lui, Cane, vai!» gli ha ordinato il nonno coprendosi con la mano gli occhi pieni di lacrime. Allora il cane ha accettato di seguirmi.

            Abbiamo attraversato il villaggio, poi abbiamo lasciato la via maestra e siamo scesi per la costa scistosa lungo il sentiero che portava al fiume. Il cane mi seguiva incespicando, e per tutto quel tempo ha tenuto gli occhi bassi, senza guardarmi una sola volta. Giunti alla riva gli ho sciolto il guinzaglio di corda e mi sono seduto su un pietrone. Sono rimasto lì per un bel pezzo. Il cuore mi batteva all’impazzata. Poi ha smesso di picchiare. Mi sono tolto il fucile di spalla, l’ho aperto, ho sfilato le due cartucce e le ho gettate in acqua. Allora, come se mi fossi scrollato di dosso un macigno tremendo, ho raddrizzato le spalle e ho ripreso a respirare normalmente. Il cane mi si è fatto vicino, tutto timido, e mi ha leccato la mano. Poi, di botto, è balzato via e si è gettato nel fiume. Ha sollevato onde, ha mandato schizzi dappertutto, ha fatto ribollire l’acqua della riva, poi è riemerso, è saltato fuori dall’altra parte e si è lasciato ricadere sulla ghiaia, esanime. Ho visto il sangue affiorare sul bianco della garza dalla ferita riaperta, ho visto una lacrima colare dai suoi occhi intelligenti, eppure, potrei giurarlo sulla Croce, in quel momento il cane sorrideva.

            «Adesso vai, Cane, pussa via. Non andartene a zonzo per villaggi, ma risali il vallone lungo il K’alaši. Non stai bene, per cui guai a lasciarti sorprendere per strada: non ringhiare a nessuno, scansa tutti quelli che incontri. Per adesso occorre fare così. Altrimenti qualcuno ti prende per un cane rabbioso e ti ammazza. Vai, Cane, sparisci: lo hai visto, da noi non puoi più stare. Vai e non tornare mai più. Hai sentito che cosa ha detto il nonno? Un uomo non può litigare con tutti per amore di un cane. Proprio non si può, a quanto pare. Io disubbidisco al nonno, ma tu non tornare più al villaggio, non combinarmi uno scherzo del genere, ché poi magari la rabbia ce l’hai per davvero. Non costringerci a fare un altro peccato. Adesso vai, bello, scappa…» Questo però non gliel’ho detto, l’ho soltanto pensato. Difficile stabilire se il cane abbia capito o meno che cosa avevo in cuore, ma quando mi sono alzato e ho ripreso la strada del villaggio lui non mi ha seguito.

            «Come è andata?» mi ha domandato il nonno al mio ritorno, vedendo che non dicevo nulla. Io mi sono tolto il fucile di spalla e gliel’ho porto. Il nonno lo ha preso, lo ha aperto e ha studiato le canne alla luce.

            «Se continui così, ragazzo mio, avrai delle noie nella vita» ha detto restituendomi il fucile.

*

Di lì a una settimana uno sciacallo si intrufolava nottetempo nell’ovile di Ekvtime Siaradze e gli sgozzava una capra. Passano due giorni e una volpe sgraffigna due ovaiole da un pollaio. Altri dieci giorni e Aslana Tavberidze trovava vuota una giara da centosessanta chili piena di grappoli di varietà bianca. Un bel giorno la mucca di Khak’una Berdzenišvili è entrata nel nostro cortile e ha brucato quattro alberelli appena innestati. Il mese dopo sono scomparsi nel nulla la vacca da latte di Nina Dzneladze e il torello di Sip’it’o Matitašvili. Una notte hanno svuotato il granaio di K’irile Titmeria, portando via tutto, senza lasciare un solo chicco. Finché la gente ha iniziato a mormorare, sono volate le allusioni, le calunnie, le male parole. Hanno iniziato a far sparire i pali delle staccionate e a scomodare i mortacci altrui. L’intero villaggio era a soqquadro, stavano tutti male.

*

Il 15 ottobre è venuta già una pioggia che il Gobazouli ha spazzato via i mulini di qua e di là dal nostro villaggio, trascinandoli giù nel Supsa.

            Il 16 ottobre il nonno mi ha mandato a macinare al mulino di Goraberežouli, miracolosamente sopravvissuto all’alluvione. La mia farina è venuta pronta intorno alla mezzanotte. Mi ero già caricato il sacco in spalla e stavo per tornare a casa quando sulla porta è comparso il tizio di Khevi, K’irile Mamaladze, e ha posato sulla pesa il grano da macinare.

            «Buonasera, Teofane!» ha salutato il mugnaio, senza riconoscere me.

            «Come sta il bambino, signor K’irile?»

            «Che bambino?»

            «Quello che lo aveva morso un cane con la rabbia!»

            «Ma no, alla fine non ce l’aveva, la rabbia» ha detto K’irile, mettendosi a calibrare la pesa.

            «Come come come, signor K’irile?»

            «E che ho detto di tanto straordinario? Alla fine quel cane non aveva la rabbia!» ha ripetuto K’irile e si è messo a badare ai fatti suoi.

            «Che Dio ti faccia vergognare, K’irile Mamaladze!» ho detto io e mi sono seduto sul sacco di farina, perché le ginocchia non mi reggevano.

            «Teofane! Ma di chi è figlio questo figlio di un cane? Non gli hanno insegnato le buone maniere?» ha domandato K’irile al mugnaio, esterrefatto.

            «Di chi sei, ragazzo?» mi ha domandato il mugnaio.

            «Non sono di nessuno, io» ho risposto e me ne sono andato per i fatti miei.

            Il 17 ottobre ho riflettuto per tutto il giorno e la notte seguente: era meglio riferire al nonno la cosa del mulino oppure no? Solo alle prime luci dell’alba ho deciso di tenere tutto per me.

            Il 18 ottobre il nonno ha rinunciato ad alzarsi dal letto.

            Il 20 ottobre mi ha tenuto a casa da scuola.

            Il 25 ottobre gli si sono gonfiati la mano e il piede destri.

            Il 27 ottobre mi ha chiamato al suo capezzale e mi ha consegnato le chiavi della cassetta.

            Il 28 ottobre mi ha ordinato di avvicinare uno sgabello, mi ha fatto sedere di fronte a lui e quando siamo stati faccia a faccia ha parlato così: «A questo mondo tutto ha un inizio e tutto ha una fine, bimbo. Per me è finita, che sia oggi o domani. È una cosa brutta partire per un destino ignoto, per cui se ti dicessi che non ho paura mentirei: ho paura sì… Ma tu, bimbo, non devi avere paura… Se dopo la morte c’è il nulla, non ho nulla da temere, perché nel nulla non c’è nulla. Se invece si muore e basta, come dicono, meglio ancora, perché allora resterò in questo mondo e tornerò in una forma diversa, come albero o come erba. Come uccello o come cane. Ma sappi che se ritorno, ritorno subito da te, non ti lascio solo. Se qualcosa ti darà un senso di calore, gioia e affetto, fosse anche solo una pietra, sappi che quella pietra è il tuo nonno… Quindi non avere paura di restare da solo, non dirti mai che non hai più nessuno. Tienimi da conto questa casa, bimbo, non abbandonarla, non lasciar spegnere le braci nel camino. Fai trovare a tuo papà il fuoco acceso, mezza galletta di mais e un bicchiere di vino. Al resto penserà lui quando ritorna. Da una settimana a questa parte vedo in sogno tutte le persone che se ne sono andate. Il tuo papà non mi è mai apparso. Segno che è ancora di questo mondo. Veglia sulla sua casa e sul suo nome, non dare soddisfazione ai nemici e vedrai che ritorna, il babbo, ritorna di sicuro. Se non quest’anno, l’anno venturo. Anche le guerre, come iniziano, finiscono. L’uomo inizia, l’uomo la smette. Ma la guerra non è mai la fine dell’uomo. Ora vai a prendere della legna, molta legna.»

            Quella notte non ho chiuso occhio. Il nonno non ha più detto nulla. Non ha mai distolto lo sguardo dalla fiamma che crepitava nel focolare, l’angolo della bocca increspato dall’ombra impercettibile di un sorriso.

            Il 29 ottobre ha provato un senso di oppressione al torace, faticava a respirare. Ha chiesto di alzarsi a sedere sul letto.

            L’ho tirato su e ho infilato dei cuscini tra la schiena e la testiera.

            «Arriva, arriva, la benemerita, ma ce ne mette…» ha mormorato tra sé e sé.

            Il 30 ottobre mi ha chiamato di nuovo e mi ha dato altri consigli.

           «Preparati, bimbo, preparati e non avere paura. Domani avrò una flussione di cuore. Ma ci sono consuetudini per ogni cosa e i vicini sapranno che cosa fare. Non preoccuparti. Il mio solo cruccio è che in casa non ci sia rimasta più una sola donna per il lamento funebre.

            Il 1 novembre, a mezzanotte, il nonno è sceso dal letto e si è piantato in mezzo alla stanza.

            «Bimbo, Gogit’a, l’ho vista!» ha detto con un accento di dolore e sorpresa indescrivibili nella voce.

            «Che cosa hai visto, nonno?» ho domandato io, ma prima che fossi riuscito ad alzarmi si è abbattuto sul tavolo ed è scivolato giù piano piano fino a ricadere all’indietro sul pavimento, lungo disteso.

            «Nonno!» sono accorso io, ma il nonno non c’era più.

            Era un uomo saggio, mio nonno, e tutto è andato come doveva andare.

            Io non ho avuto paura. Mi sono rivestito. Ho spalancato tutte le porte e tutte le finestre della casa e sono uscito sulla balconata.

            Fuori albeggiava, era l’aurora del 2 novembre. Il cielo era gelido e lustro come uno specchio, pallido, la Bilancia era sospesa sul nostro cortile. Sono sceso, ho calpestato a piedi nudi l’erba umida di rugiada. Ho sentito un brivido gelato per tutto il corpo. Nel campo frusciavano le stoppie non ancora falciate. Ho pensato, chissà perché: «Forse sanno tutto e ora stanno mormorando sul mio conto». Quando sono passato sotto il pero mi sono chinato a raccogliere un frutto caduto per terra, l’ho strofinato sul colletto della camicia da notte e ho affondato i denti nella polpa. Ho morso e morso, e solo allora ho sentito che avevo la bocca prosciugata. Ho spalancato il cancello del cortile, ho imboccato il viottolo tra le case e mi sono piantato all’ingresso della vicina.

            «Margalit’a!» ho chiamato da lì. Non ha risposto nessuno, per cui ho alzato la voce. Facevo ogni cosa con calma e gravità. Al mio secondo richiamo la porta si è aperta con un cigolio e Margalit’a è uscita sul balcone.

            «Chi va là?» ha domandato con voce impastata di sonno.

            «Sono io, Gogit’a.»

            «Che ti piglia, Gogit’a? Che ci fai qui in piena notte?»

            «Scendi giù in cortile, devo dirti una cosa.»

            «Gogit’a! Sei sbronzo?»

            «È morto mio nonno, Margalit’a. Vieni a piangerlo per me, ti prego.»

            «Gogit’a, sei uscito di testa!?»

            «Te lo chiedo per favore, Margalit’a, non piantarmi in asso, vieni ad annunciare la morte del nonno!» Margalit’a è scesa in cortile senza neppure vestirsi, a piedi nudi, ed è venuta con me. Passato il cancello ho lasciato andare avanti lei. Quando ha messo piede sulla scala si è guardata indietro, intimorita.

            «Non avere paura!» le ho detto io con voce tranquilla, sedendomi sull’erba di fronte alla balconata. Margalit’a è salita sul ballatoio, ha posato le mani sulla balaustra piena di rampicanti, si è sciolta i capelli e ha guardato verso il villaggio.

*

L’ultimo saluto al nonno è stato di domenica, il 4 novembre 1943.

            La gente ha iniziato ad arrivare di primo pomeriggio. Le donne del vicinato, che facevano le veci dei parenti in lutto, piangevano me invece che il morto.

            «Gogit’a, miserello! Che ne sarà di te ora, creatuuura?»

            Io piantonavo la porta con la fascia nera al braccio e porgevo la mano in silenzio alle persone che venivano per le condoglianze. Non una lacrima, non un sospiro.

            «Piangi, Gogit’a, piangi, altrimenti il cuore ti va in pezzi» diceva Margalit’a.

            Io facevo di sì con la testa: «Piango, piango, vedrai». La gente veniva avanti in ordine di parentela, legami di battesimo, genealogia e vicinato, ciascun gruppetto preceduto da due bambini con coroncine di tarassaco in testa e una donna dai capelli discinti. Il viottolo, il cortile e la balconata erano pieni di gente. Cianciavano, discutevano, facevano le loro considerazioni. Qua e là si sentiva qualche risatina appena camuffata. Di punto in bianco in cortile è dilagato lo scompiglio: dopo un primo momento di trambusto la gente si è divisa in due, facendo ala. Pieno di cardi, inzaccherato di argilla rossastra, ispido, più morto che vivo, un cane veniva avanti dal cancello spalancato. Si è fatto strada tra la folla che gli cedeva il passo senza guardare né a destra né a sinistra, è salito sulla balconata, è entrato nella stanza grande, dove era esposto il nonno, l’ha attraversata, è entrato nella camera da letto e ha ispezionato il letto vuoto, poi è tornato in sala. Si è piantato di fronte al feretro, appoggiato contro un divano. Si è alzato sulle zampe posteriori, si è puntellato con le zampe anteriori contro la seduta, ha stirato il collo ed è rimasto a fissare il nonno, bello, incorrotto, pacifico e benevolo nella sua bara. Dapprima il cane lo ha fissato lungamente, poi si è girato, si è allontanato dal morto e si è accovacciato ai miei piedi, trattenendo il fiato.

            «Gloria a Dio nell’alto dei cieli!» ha salmodiato qualcuno alle mie spalle. Allora non ce l’ho più fatta. Mi sono preso il viso tra le mani e sono scoppiato in un pianto dirotto.

            Verso le cinque c’è stato un altro miracolo. È venuto Badria, quello del tabacco. Quando ha visto il cane accoccolato ai miei piedi è trasalito, ma ha fatto finta di niente ed è venuto avanti per le condoglianze. Il cane gli ha sbarrato il passo. Il pelo tutto irto, la coda spianata, pronto ad aggredire. Le zanne gli brillavano mentre ringhiava in modo spaventoso: un brusio ritmico, come di sega. Badria ha fatto un salto indietro. Il cane ha mosso un passo avanti, puntandolo.

            «A cuccia, Cane!» ha detto Badria, bianco come un cencio.

            Il cane non muoveva un muscolo, teso come la corda di un arco.

            «Non mi lasci neppure piangere la buonanima del tuo padrone?» ha scherzato goffamente Badria. Il ringhio si è fatto più sonoro ancora e il cane ha mosso un altro passo avanti.

            «Di’ qualcosa al tuo botolo, ragazzo!» si è rivolto a me, non sapendo più cosa fare.

            Allora, come un lampo, mi è ritornata in mente una frase del nonno: «“Lui lo sa chi gli ha sparato, hai voglia se lo sa, ma provaci tu a farlo parlare!”».

            «Sparisci, Badria. Levati dal mio cortile!» gli ho intimato. Poi ho ripensato a un’altra frase del nonno, quella volta che gli ho restituito il fucile con le canne vuote: «Se continui così, ragazzo mio, avrai delle noie nella vita». Ma non mi sono rimangiato nulla. «Sparisci, Badria. Levati dal mio cortile!» ho ripetuto, e Badria ha fatto come dicevo.

*

La mattina presto mi ha svegliato un rumore. Sono uscito in mutande sulla balconata.

            «Gogit’a! Giovane! Lega questo figlio di cani, altrimenti ci sbrana vivi» urlava uno dei vicini, venuti a riprendersi le sedie.

            Ho guardato dalla parte del villaggio. Dalle abitazioni in legno, simile a un pennacchio, saliva un filo di fumo bianco. I galli cantavano, le vacche muggivano, le capre facevano baah, i capretti facevano beeh, le galline chiocciavano, un sole gigantesco era spuntato dal K’onckhoula… e all’improvviso mi ha invaso un’ondata di calore. Alle mie orecchie era giunto un suono delizioso, come uno squillo.

            Nel mio cortile abbaiava un cane.

© Nodar Dumbadze 1974

© Francesco Peri 2021 per la traduzione

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